L’esperienza di un oratorio a Pesaro

Dagli “altri” al “noi”

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03 luglio 2020

Nella nostra parrocchia è stata l’esperienza dell’oratorio che ci ha condotto a riconsiderare i percorsi catechistici e a renderli esperienziali. Attraverso di essi, in modo maieutico, sono stati presentati e recepiti i valori della fede; soprattutto in riferimento ai bambini, ragazzi e giovani con disabilità, attualmente ne abbiamo trenta.

Non potevamo che iniziare da un’alleanza educativa con le rispettive famiglie, per conoscere da loro, educatori naturali e fondamentali dei loro figli, la patologia nella sua concretezza insieme alla relativa via di approccio e di comunicazione con la persona con disabilità. Questo per accoglierla non come pensiamo noi, ma partendo proprio da essa e dalle sue richieste, dal suo vissuto, superando il binomio “altri/altro” per giungere al “noi”. Nel nostro percorso abbiamo cercato di aiutare i coetanei ad avere consapevolezza della persona che stavano accogliendo; e la persona con disabilità ad avere consapevolezza dei propri coetanei. Ci siamo sforzati di formare e preparare catechisti ed educatori non per arrivare a formulare progetti teorici “a tavolino”, ma sulla base delle domande, delle esigenze, dei volti di coloro di cui devono prendersi cura.

Abbiamo superato l’affiancamento alla persona con disabilità di un solo catechista o educatore “di sostegno”, arrivando ora a operare in équipe. La persona con disabilità, poi, quando arriva ad avere l’età opportuna, viene inserita essa stessa nell’équipe catechistica e di oratorio. In questo modo, si cerca di renderla attiva nella comunità parrocchiale, attraverso il suo apporto nella catechesi, nell’oratorio, nella liturgia e nella carità.

Coniugando questi principi nel concreto, si realizza un accompagnamento educativo in un “noi” comunitario, il quale è capace di vedere nell’altro, in quanto altro, una ricchezza che suscita interesse, novità nel conoscere e arricchimento. Inoltre, viene anche stimolata la curiosità: dal sordo si impara la lingua dei segni; dal cieco il braille; dagli sguardi, l’affetto di colui che non comunica se non attraverso suoni. Tutto questo non è semplicemente “qualcosa” in più, ma un reale aiuto alla consapevolezza.

Dalla nostra esperienza, tuttavia, abbiamo compreso che non è sufficiente integrare le varie diversità. “Stare insieme” non è tutto. Un bambino o un educatore con disabilità non si integra se sta “tra” gli altri, nonostante l’osservazione reciproca sia già un primo passo, ma si deve arrivare a stare “con” gli altri e “per” gli altri. Non si tratta, semplicemente, di creare condizioni di normalizzazione. Inevitabilmente, infatti, si arriva a fare i conti con le nostre difficoltà di fronte alla disabilità, con quanto essa comporta. Occorre, quindi, fare spazio alla ricchezza della differenza, adeguando, di volta in volta, gli ambienti e la nostra prassi, in base ad ogni specifica singolarità. La normalità, dunque, deve divenire una metamorfosi costante per poter così formulare percorsi inclusivi.

Nel nostro itinerario abbiamo operato a ritroso. Ci siamo lasciati seguire nell’accompagnamento educativo e, in questo modo, sono nati i diversi progetti e percorsi: i bambini mi chiedevano: «Come fa Alessandro, che è cieco, a riconoscermi e a chiamarmi per nome toccandomi solo la mano e il viso?». Abbiamo, quindi, portato tutti al museo tattile. Ognuno, bendato, è stato invitato a toccare la Pietà di Michelangelo, mentre proprio Alessandro, toccandola, la presentava. Abbiamo tappezzato la stanza dell’incontro di immagini, utilizzando la comunicazione aumentativa, perché Lorenzo, che non parla ma riconosce le immagini, potesse “leggere” a suo modo i passi biblici disegnati, indicandoli col dito e narrandoli agli altri. Luigi, ragazzo con la sindrome dello spettro autistico, presiede all’organizzazione del materiale necessario per i laboratori catechistici; Sara, giovane con la sindrome di down e amante della danza, insegna agli altri a ballare e a cristallizzare le parabole di Gesù; Marco e Massimiliano, con disabilità intellettiva, sono educatori, perché la loro esuberanza è coinvolgente; Andrea, giovane con la sindrome dello spettro autistico, non manca la domenica di svolgere il suo servizio come ministrante; Federico, amante della chitarra, di cui conosce solo tre accordi e un ritmo, anima ogni giorno la preghiera; Luca che non parla se non a gesti e suoni, Teo che ripete sempre le stesse frasi e Diego che ad ogni proposta fa “orecchie da mercante”, accomunati dalla sindrome dell’“x fragile”, sono evidentemente felici di sentirsi accolti e “a casa” in un luogo in cui hanno spazio, tempo e impegno.

Catechisti ed educatori, motivati al servizio, si sono innanzitutto impegnati “col cuore”, sperimentando una buona volontà che orienta l’umano. La consapevolezza ha spinto l’esigenza verso una solida formazione per l’acquisizione di idonee competenze. La nostra “normalità” si è modificata e abbiamo ottenuto il dono di muoverci verso l’inclusione. Abbiamo fatto tesoro dell’esempio delle famiglie che accolgono un figlio con disabilità, modificandosi in maniera totale attorno a lui. Siamo così cresciuti nella consapevolezza che la comunità parrocchiale è educativa quando si riconosce come famiglia di figli e profuma di paternità e maternità.

Giuseppe Fabbrini