Strutture carcerarie inadeguate impediscono il reinserimento nella società

Lo scopo è riabilitare

L’Istituto San Michele a Roma nel 1878
09 giugno 2020

Le difficoltà fanno sempre emergere, e con evidenza, le situazioni di squilibrio e, quando coinvolgono un soggetto debole le necessità di tutela aumentano, richiedendo una cura che, se non assicurata, manifesta un disagio che, facilmente, da individuale diventa sociale. La protesta, scoppiata nelle carceri a seguito della pandemia e protrattasi per diversi giorni con esplosioni di violenza, indica il grado di inadeguatezza di un sistema penitenziario alquanto precario che si appoggia su una struttura edilizia fortemente insufficiente e, quindi, molto pericolosa. In Italia, ma anche in molti altri Paesi, soprattutto dell’America latina, la mancanza di spazio individuale ha accresciuto il rischio del contagio e, con esso, la paura, provocando vere e proprie rivolte.

Il problema è dato dal sovraffollamento che, già intollerabile in condizioni di normalità, diventa del tutto insostenibile quando subentra l’emergenza. Gli investimenti dello Stato nell’edilizia carceraria non sono stati quasi mai ai primi posti, preceduti da interventi solo apparentemente più urgenti e significativi. Alla base di questa logica risiede la convinzione, magari non pronunciata, che possano essere poste in secondo piano le condizioni di abitabilità di un recluso, dimenticando che in questo modo chi ha commesso il reato è sempre più allontanato da un auspicabile recupero.

Il carcere è invece tutt’altro: ha una funzione sociale positiva; deve svolgere il compito della riabilitazione. Dostoevskij sosteneva che il grado di incivilimento di una società si misura proprio sullo stato delle prigioni.

Una riflessione sugli edifici carcerari e le trasformazioni che questi hanno avuto nei secoli porta alla luce, tranne qualche eccezione, un sistema in grave crisi, la cui soluzione non può certamente essere rinviata. Questa carenza di investimenti non è tuttavia isolata; coinvolge anche altre strutture pubbliche, proprio quelle che mostrano, soprattutto in questo periodo, le maggiori difficoltà di esercizio nel contrastare pericoli inattesi: la scuola, l’università, i trasporti, ma soprattutto l’edilizia sanitaria, servizi pubblici che, non sostenuti adeguatamente, sprofondano in una condizione strutturale molto fragile.

Ospedali e prigioni presentano, dal punto di vista della valutazione architettonica, alcune affinità. L’edilizia penitenziaria, al pari di quella ospedaliera, è un tipo che presuppone una preparazione professionale specialistica. Alle competenze legate al campo dell’architettura si devono affiancare conoscenze giuridiche, psicologiche e sociologiche connesse alla detenzione. Sulla spinta dell’idea di attribuire alla privazione della libertà un carattere riabilitativo il progetto di un edificio carcerario deve mettere insieme un grande numero di tasselli: bisogna riflettere infatti sugli spazi individuali e quelli collettivi; garantire la sicurezza e la dignità dei detenuti, ma anche di coloro che prestano servizio all’interno degli impianti; prevedere spazi comuni dedicati alla formazione e alla socialità; valutare i vari tipi di pena; promuovere, laddove possibile, forme di reclusione che offrano anche possibilità di uscita.

Nel Medioevo cominciano a delinearsi edifici precisati dal punto di vista funzionale; nel Rinascimento compaiono numerosi trattati sull’argomento, ma è solo a partire dalla metà del XVII secolo che si può parlare più propriamente di storia dell’architettura penitenziaria. Sono gli anni in cui la costruzione a Roma da parte dello Stato Pontificio delle Carceri Nuove e, nel secolo successivo, del carcere di San Michele — il primo istituto per minorenni — fissa la nascita delle prigioni moderne, intese come luogo fisico, destinato alla detenzione, nel quale è definitivamente separata la funzione penitenziaria da quella giudiziaria. Il San Michele è un esempio ancora molto attuale: non solo per le soluzioni strutturali e funzionali, capaci di garantire sicurezza, vivibilità, visibilità, ma soprattutto per l’offerta di spazi proporzionati ai giovani detenuti, adeguati al programma correttivo e di rieducazione. Opera di Carlo Fontana (1704), fa parte di un complesso che comprendeva, prima delle ristrutturazioni recenti, vari edifici destinati all’assistenza oltre che alla reclusione. Il carcere per i minori si presenta come un corpo triplo con le celle individuali che affacciano sulle pareti esterne e un lungo ambiente centrale, destinato alle attività lavorative in comune.

Non manca quindi una cultura che inquadri il problema penitenziario all’interno della scelta riabilitativa: a partire dal XVIII secolo, la revisione dei metodi punitivi favorisce infatti un’edilizia con l’intento di “umanizzare” il periodo di reclusione. È solo a metà del 1800, a seguito di una serie di regolamenti specifici, che si moltiplicano le soluzioni tipologiche che, nel corso del secolo successivo, promuovono una sostanziale modifica del modo di vivere del recluso. La legge che nel 1975 riforma, in Italia, l’ordinamento penitenziario punta a migliorare le condizioni di detenzione, con programmi tesi alla riabilitazione e al reinserimento nella società. Questa svolta tenta di allontanare la dilagante sensazione di “disumanità” delle prigioni e, in questa prospettiva, assume una nuova fisionomia la questione della qualità architettonica. Il soddisfacimento dei bisogni psico-fisici dell’individuo e la complessità delle relazioni interpersonali guidano l’idea tipologica che solo la continuità spaziale e organizzativa tra il “dentro” e il “fuori” può favorire la riabilitazione del detenuto.

Dei tanti principi rieducativi che, ormai da secoli, sottendono il sistema penitenziario nel suo complesso, la gran parte è stata però disattesa. Tra gli esempi virtuosi si ricorda il carcere di Halden, in Norvegia, progettato dall’architetto danese Erik Møller e inaugurato nel 2010. L’edificio, lineare e minimalista, immerso in un bosco, che si integra perfettamente nel contesto circostante, ha le celle, rigorosamente senza sbarre per permettere un maggior afflusso della luce, dotate di frigorifero e televisore. Gli spazi comuni, attrezzati per favorire le attività fisiche e ricreative, hanno lo scopo dichiarato di portare al reinserimento nella società. Degni di nota sono anche alcuni esempi olandesi — il Maasberg Juvenile Detention, lo Stadsgevangenis e il Bijlmerbajes — che propongono un complesso edilizio, articolato in più parti, inserite all’interno di un ambiente molto verde. L’interazione tra i detenuti e l’esterno è il principio base su cui si fondano le scelte progettuali: gli edifici aperti e le trasparenze dei corpi rendono infatti il senso di un continuo dialogo.

Anche in Italia alcune iniziative, impostate sul coinvolgimento dell’istituzione penitenziaria e di altre strutture sia pubbliche che private, hanno favorito rapporti interessanti. Buoni risultati ha dato l’attività del “teatro in carcere”, così come il progetto architettonico, il Giardino degli Incontri nel carcere di Solliciano, opera di Giovanni Michelucci che ha realizzato, sia pure tra molte difficoltà, un padiglione, dotato di una vasta area verde, destinato ai colloqui con le famiglie.

Gli studi sullo sviluppo dell’edilizia carceraria sono pertanto sostenuti, e in non pochi casi, dalla progressiva ricerca di una cura estetica e funzionale, tesa alla riabilitazione e al recupero della distanza tra il recluso e il mondo esterno. Questo principio spesso viene dimenticato, posto in secondo piano. Dovrebbe invece rappresentare l’obiettivo primario, da porre costantemente in evidenza per far comprendere al detenuto che la permanenza coatta non deve essere intesa come l’espiazione di una pena, ma un percorso per ritrovare l’equilibrio con se stesso e con il mondo esterno.

Il rischio di non raggiungere l’obiettivo sperato è sempre in agguato, però lo spazio per il recupero sociale deve essere sempre lasciato aperto. A Medellín, la capitale del narcotraffico in Colombia, le aree di maggiore criminalità, non lontane da distretti di polizia e reclusori, sono state bonificate attraverso un programma che prevedeva al loro interno biblioteche e centri sociali. Ma non è quanto già ipotizzava Platone, quando prevedeva la collocazione di uno dei tre tipi di carcere, descritti nei suoi dialoghi, proprio nei pressi di una delle parti più vitali e frequentate della città, il mercato?

di Mario Panizza