Il racconto dell’epidemia nei secoli

Firenze e la doppia peste

Pieter Bruegel, «Trionfo della morte» (1562, particolare)
19 giugno 2020

Nel «Decameron» di Boccaccio e nell’«Epistola» di Machiavelli


Era il 1348 quando un terribile morbo ghermì Firenze cogliendola impreparata e decimandone la popolazione. Come raccontano le cronache del tempo, le scarse condizioni igieniche e la diffusa malnutrizione favorirono il radicamento dell’epidemia. Giovanni Boccaccio trattò l’argomento con il cuore affranto e con non celata sofferenza. Nell’Introduzione alla prima giornata del Decameron, all’interno della cornice narrativa, l’autore spiega che «la dolorosa ricordazione della pestifera mortalità trapassata» è la causa dell’«orrido cominciamento» della sua opera. In quaranta paragrafi, sui novantasei che compongono l’Introduzione, Boccaccio delinea il cupo panorama di Firenze e descrive in maniera analitica i primi segni della pestilenza: «Nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinata o sotto le ditella certe enfiature, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra breve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie o livide».

Nessun medico appare in grado di curare la malattia: sia per la novità dei sintomi sia per l’ignoranza — denuncia Boccaccio — di molti uomini che si spacciano per dottori e scienziati. Ma l’autore non è colpito solo dal morbo e dal suo inclemente propagarsi, ma anche dalle pesanti implicazioni che esso determina, quale, principalmente, la dissoluzione di ogni forma di rapporto civile e di socializzazione. C’è infatti chi si ritira in una vita ascetica o chi, operando una scelta di segno opposto, si abbandona ai piaceri della carne e della gola. La peste non conosce pietà e finisce per corrompere e per sradicare i fondamentali principi di affetto e di sangue. Scrive Boccaccio: «E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribolazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’uni fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi non fossero, di visitare e di servire schifavano». Vengono ignorate la compassione e la pietà verso gli appestati. I malati sono abbandonati in casa dai loro stessi parenti. I poveri muoiono in strada senza che qualcuno presti loro soccorso. Sono in tanti ad abbandonare Firenze per fuggire nelle campagne con la speranza di sottrarsi al letale contagio. Nel frattempo i servi si approfittano dei padroni ammalati per derubarli. Come pure si assiste a funerali solitari e a sepolture in fosse comuni. Tutti questi elementi, sottolinea Boccaccio, rappresentano un segno inconfutabile della perversione dei tempi.

Sembra parodiare — almeno in parte — Boccaccio, Niccolò Machiavelli che alla peste di Firenze nel 1527 dedicò una Epistola la quale, a sua volta, ha una storia interessante. Machiavelli, infatti, mostra in filigrana un distacco venato di ironia nel trattare il funesto avvenimento lanciando sottili strali a chi prende troppo a cuore i perniciosi effetti di un male che altro non è che la punizione che gli uomini «sciatti e rei» si sono meritati. Nel maggio del 1523 Machiavelli inviò a Lorenzo Strozzi, letterato e uomo politico, un testo in forma di lettera, nella quale descriveva all’amico, lontano da Firenze, lo stato della città sconvolta dalla peste. Dopo la morte di Machiavelli, Strozzi, suo presunto amico, se ne attribuì la paternità manomettendo l’autografo originario, per cui per molto tempo quel testo è stato ritenuto opera di Strozzi. Un’indagine a largo raggio di tipo storico, filologico e critico è riuscita, successivamente, a restituire la legittima paternità all’autore del Principe.

«Firenze — scrive Machiavelli — assediata dalla peste, sembra una città saccheggiata, e poi abbandonata, dagli “infedeli”. Chi non è riuscito a fuggire dalla città o è morto o sta per morire, patendo una straziante agonia. È uno spettacolo che farebbe versare copiose lacrime se non fosse che l’intero scenario conserva, pur nella tragicità del momento, un che di grottesco. Il presente ci offende e il futuro ci minaccia».

«Che epoca maledetta» dichiara l’autore che, al di là di un distacco in parte sinceramente avvertito, in parte artatamente ostentato, compie un atto d’amore nei riguardi di Firenze. Con nostalgia, screziata di amarezza, egli ricorda quando le strade erano «pulite e belle», sempre formicolanti di persone ricche e nobili. Adesso, a causa della peste, esse emettono odori malsani e sono invase da torme di poveri. Anche la conversazione risente del dramma. Prima, lamenta Machiavelli, la gente era in piazza e parlava di cose belle, degli affari e degli amori. Ora, ammesso che la gente si fermi per conversare, si parla sempre e solo di morte. C’è anche chi azzarda delle ipotesi circa le cause del morbo, ma in realtà si va alla cieca. E c’è chi ricorda che Firenze è stata già duramente colpita dalla peste nel 1348 e nel 1478. «Turpe destino» scrive Machiavelli che richiama un particolare significativo. Prima della peste egli era solito passare davanti alla basilica di San Miniato e ogni volta veniva «stordito» dall’incessante rumore provocato dai battitori della lana e dai penetranti fischi dei commercianti della lana. Dopo che la peste ha svuotato la città, quando passa davanti a San Miniato si trova «stordito» da un silenzio tanto irreale quanto tragico.

Commovente è l’incontro, seppur di breve durata, con un frate della chiesa di Santo Spirito dove Machiavelli, con timido passo, è entrato. Il religioso è impegnato nel curare i preparativi dell’imminente messa pur sapendo che saranno pochissimi i fedeli, viste le circostanze, a parteciparvi. Lo stesso frate spiega a Machiavelli che a causa della peste numerosi confratelli sono morti. A loro non è permesso lasciare la città e nell’arco di qualche giorno quelli che sono sopravvissuti non avranno cibo a sufficienza, e il rifornimento di nuove provviste non è al momento contemplato. Ma il frate, sottolinea Machiavelli, è sereno. Uno stile di testimonianza che risalta fulgido in uno scenario così cupo e così tenebroso.

di Gabriele Nicolò