Due eroi silenziosi al centro dell’ultimo romanzo di Jan Brokken

Come dimostrare che si tratta di una storia vera?

Particolare dalla copertina del libro  edito da Iperborea
08 giugno 2020

L’olandese Zwartendjik e il giapponese Sugihara salvarono migliaia di ebrei lituani


«Pare che a un certo punto a Tokyo il ministro degli interni abbia convocato il rettore della Yeshivah di Mir. Assistito da un interprete e in compagnia del suo staff al gran completo, il ministro chiese al rabbino “Mi dica un po’, perché i tedeschi vi odiano tanto?”. Senza fare una piega il rabbino rispose “Perché siamo asiatici”. Al che tutti intorno al tavolo annuirono».

Così racconta il sopravvissuto polacco Marcel Wejland, allora tredicenne, poi architetto a Sidney e traduttore del Pan Tadeusz, in una delle oltre seicento pagine che compongono l’ultimo romanzo di Jan Brokken, I giusti (Milano, Iperborea 2020, pagine 636, euro 19,50, traduzione di Claudia Cozzi).

Ma l’aneddoto, pervaso dell’arte talmudica dell’ironia e del paradosso, è uno dei pochi accenti lievi di una vicenda che non soltanto era ignota ai più, ma con aspetti a volte così inverosimili che l’autore fa svolgere alle foto, numerose e straordinarie, un ruolo magistrale. «Dovevo dimostrare che si trattava di una storia vera, che tutto ciò era accaduto realmente. Compresi i massacri commessi dal Fronte Attivista Lituano a Vilijampole, di cui ho pubblicato le immagini terribili».

Siamo nell’Europa del nazismo e della caccia agli ebrei, dove due uomini molto diversi fra loro, che nemmeno si conoscono, creano la salvezza. La creano con la mente e col cuore, riuscendo ad abbattere i confini, a salvare migliaia di vite umane. Sono due diplomatici di stanza a Kaunas. L’olandese, Jan Zwartendjik, direttore della filiale lituana della Philips, neo console onorario, e Chiune Sugihara, primo rappresentate diplomatico giapponese in Lituania, console a Kaunas dal 1939.

In Lituania si trovano molti ebrei; oltre ai nativi, ci sono gli studenti delle locali prestigiose scuole rabbiniche, poi a frotte arrivano da Polonia, Germania, Olanda, Cecoslovacchia in cerca di una via di scampo. Ma anche nel Paese baltico la situazione precipita di giorno in giorno, in un crescendo di inaudita violenza.

Una foto ritrae un giovane lituano biondo dall'aria soddisfatta in un piazzale pieno di cadaveri. Da solo ha massacrato sessantotto ebrei con una spranga di ferro, incitato da una folla inferocita dove i padri tengono i bambini sulle spalle per farli assistere alla mattanza. Il colonnello tedesco Lothar von Bischoffshaursen lo avrebbe definito «l’episodio più orribile cui aveva assistito in due guerre mondiali».

I primi profughi a rivolgersi a Zwartendjik sono Pessla Sternheim, polacca naturalizzata olandese, a suo tempo studentessa nella medesima università berlinese di Hanna Arendt e il marito, il rabbino Isaac Lewin.

È il 22 luglio 1940, «quando è ancora possibile fare molte cose». Prima di tutto si deve lasciare l’Europa. Ecco allora un geniale escamotage: il neoconsole onorario Zwartendjik scrive sui loro passaporti che per andare in Suriname, a Curaçao e negli altri territori olandesi situati in America non è necessario alcun visto, «le consulat des Pays Bas à Kaunas declare par la presente que par l'admission d'etranger au Suriname, au Curacao et autres possession neerlandaises en Amerique un visa d'entree n’est pas reqis».

A sua volta il console Sugihara rilascia loro, vergandolo accuratamente in ideogrammi con un pennino, un permesso di transito per il Giappone.

All’epoca la Germania ha già bloccato l’intera costa del mar Baltico, pertanto è impossibile accedere a quei lontani possedimenti olandesi seguendo la rotta atlantica. Occorre munirsi di un biglietto ferroviario per la transiberiana per arrivare Vladivostok, imbarcarsi da lì per Kobe o Ykohama, poi cercare di ripartire alla volta dell’America, dell’Australia o della Palestina. Molti ripareranno anche a Shanghai. I due diplomatici, per quanto possa sembrare impossibile, si parleranno solo alcune volte al telefono senza mai incontrarsi.

«L’unico ricordo buffo di quel periodo buio lo devo al console giapponese. Doveva scrivere sui passaporti il visto di transito in caratteri giapponesi con pennino e inchiostro nero. Mi chiamò diverse volte in preda al panico, chiedendomi di non lavorare così in fretta perché lui non ce la faceva a tenere il passo col suo pennino. La strada era piena di gente in attesa».

Impossibile calcolare esattamente quante persone siano sopravvissute grazie all’iniziativa di Zwartendjik, spesso con un solo visto viaggiava no interi nuclei famigliari.

L’incertezza sull’esito di tutta questa vicenda amareggerà profondamente l’ex console fino alla fine dei suoi giorni. Al rientro in patria nasconde quanto è stato fatto essendo i Paesi Bassi a loro volta invasi dai nazisti. Nel 1964 viene invitato al ministero degli esteri, presieduto da Joseph Luns, esponente negli anni Trenta del partito nazionalsocialista locale; «gli dissero che non avrebbe dovuto fare ciò che aveva fatto in Lituania, non aveva rispettato le regole (…) delle decorazioni non gli importava nulla, ma considerava il rimprovero umiliante».

Poche ore dopo la sua morte, avvenuta all’alba del 14 settembre 1976, viene recapitata una lettera dell’Holocaust Research Center «in base alle cifre fornite da Kobe (…) si era potuto stabilire che oltre il 95 per cento dei rifugiati ebrei al quale il console olandese di Kaunas aveva rilasciato un visto, erano sopravvissuti alla guerra».

Tutta l’operazione lanciata da Zwartendjik fa emergere l’ottusa cecità della società occidentale di fronte alla tragedia che si sta compiendo. L’Olanda stessa adotta misure restrittive fin dal 1934, gli Stati Uniti chiudono le frontiere dal 1939 e impediscono lo sbarco alla Saint Louis, proveniente da Amburgo, pur sapendo a quale sorte andranno incontro in Europa i 907 passeggeri ebrei a bordo.

«In fondo lui non fece altro che cercare di riparare in un modo alquanto fantasioso, alla chiusura dei confini». Zwartendjik non si considerò mai un eroe, ai suoi figli disse soltanto che aveva fatto quello che doveva fare. Non era mosso da una fede politica o religiosa, ma esclusivamente dalla sua coscienza.

I suoi pseudo visti percorrono una via legale e rivolgendosi a Moses Beckelman, rappresentante dell’American Distribution Committee a Kaunas, il console trova addirittura il modo per finanziare, almeno in parte, l’esodo. La sua iniziativa razionale, silenziosa e ordinata è l’esatto contrario «del caos che contrassegna oggi l’odissea di chi dall'Africa cerca salvezza in Europa».

Con passione, rigore e rispetto Brokken intreccia magistralmente le narrazioni umane e storiche, ricercandone motivazioni e origini dell’agire, frammenti di vite, luoghi, tempi, piccole dosi fruibili per intuirne la dimensione epica.

Hiroko Yamagata, la futura poetessa, fa la prima elementare quando centinaia di ebrei vestiti di nero cominciano a vagare per la sua città. «Un giorno vidi quel ragazzino con suo padre. Aveva infilato la mano sinistra sotto al braccio destro del padre e di tanto in tanto affondava la faccia nel suo cappotto. Sentii una fitta di gelosia. Non mi sarebbe mai stato possibile avere quell’intimità con mio padre. Invidiai quel ragazzino. Invidiai il modo naturale con cui poteva esprimere i suoi sentimenti».

di Nicla Bettazzi