John Dryden moriva il 12 maggio 1700

Il principe delle elegie

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09 maggio 2020

Se non fosse stato per Thomas Stearns Eliot, il poeta inglese John Dryden (morto il 12 maggio di trecentoventi anni fa) avrebbe rischiato le pene dell’oblio, quando invece avrebbe meritato il piacere di un’unanime acclamazione. Sulla sua figura di poeta, nonché di drammaturgo, di critico letterario e di traduttore ha sempre gravato la compromettente ombra di un’attività letteraria da lui svolta al soldo di chi gli commissionava le opere, come se questo fatto escludesse automaticamente la presenza di un grande talento, sia in prosa che in versi. Nel saggio The Poet, the Dramatist, the Critic (1932), Eliot scrive che Dryden fu «l’antenato di quasi tutto ciò che c’è di migliore nella poesia del diciottesimo secolo» aggiungendo che «non possiamo apprezzare e valutare cento anni di poesia inglese se non apprezziamo Dryden nella sua completezza».

La formazione del futuro poeta fu forgiata alla Westminster School che, ispirata ai dettami impartiti da Elisabetta i, abbracciava con vivo trasporto un convinto spirito politico e religioso così da favorire nei discenti un forte attaccamento sia alla monarchia sia alla Chiesa anglicana. La Westminster School curava poi con particolare dedizione l’arte della retorica e della dialettica: questo approccio didattico era destinato a esercitare una significativa influenza sulla vena scrittoria di Dryden. Stessa influenza che è dato di riscontrare nell’eredità culturale a lui lasciata dal Trinity College di Cambridge, frequentato «con la passione di chi intuiva che un giorno avrebbe avuto qualcosa di importante da dire, e che sapeva come dirlo» rileva Eliot.

Il suo primo importante poema fu Heroique Stanzas (1658) che ha per tema la morte del Lord Protettore Oliver Cromwell, il quale aveva capeggiato le forze alleate che avevano abbattuto, contemporaneamente, la monarchia. Un elogio, quello tessuto da Dryden, ben calibrato, perciò prudente, ben consapevole che il vento stava per cambiare. E così fu. La monarchia fu presto restaurata e nel 1650 il poeta celebrò l’evento, con annesso ritorno al trono di Carlo ii, con Astarea Redux, un vero e proprio panegirico, in cui il sovrano viene definito «l’uomo della pace e dell’ordine». Carlo ii gradì l’omaggio e Dryden divenne nel volgere di pochi mesi il principale poeta di corte. A conferma della fedeltà al nuovo regime il poeta compose altri due panegirici, To His Sacred Majesty: A Panegiric on His Coronation e To My Lord Chancellor, entrambi nel 1662. In questo periodo infuriava in Inghilterra una rivolta puritana che, nel segno di uno spirito iconoclasta, si era scagliata anche contro forme e manifestazioni culturali che potessero “corrompere” gli animi. A fare le spese di questa temperie furono i teatri. Dryden fremeva in attesa di poter esprimere senza vincoli la sua vena di drammaturgo e non appena la rivolta fu domata, con convulsioni e tumulti, egli si precipitò a mettere mano a lavori che nella sua mente ribollivano da tempo.

Con il Marriage-A-la-Mode (1672) Dryden aprì la via alla cosiddetta commedia della Restaurazione, ovvero quella produzione culturale che mirava a favorire un nuovo rinascimento del teatro inglese rinverdendo i fasti del teatro elisabettiano. Da rilevare che in questo scenario le donne assunsero un ruolo di maggiore rilievo, potendo finalmente diventare le protagoniste sulla scena in veste di attrici, e fuori scena come commediografe e autrici.

Quando poi la peste colpì Londra, Dryden si ritirò nel Wiltshire, dove scrisse Of Dramatick Poesie (1668), un lungo saggio in forma di dialogo nel quale quattro personaggi celebrano le virtù che nobilitano la letteratura classica inglese e francese. Ogni volta che metteva mano alla penna Dryden elaborava uno stile elegante e armonioso, tratto questo rispecchiato nei suoi versi. Talora rischia di apparire troppo compunto, quasi paludato, ma la capacità di analisi dei temi dibattuti riesce a riscattare un linguaggio (su questo versante risente in parte delle passate elegie) venato di cerimoniosità e fronzoli formali.

Meno nota al lettore comune ma non per questo meno importante fu la sua attività di traduttore. In particolare si cimentò, con successo, sui testi di Orazio, Giovenale, Ovidio, Lucrezio, Teocrito. Meritevole si rivelò questo impegno perché contribuì a rendere fruibili ai comuni lettori opere fondamentali che altrimenti sarebbero rimaste loro precluse. Veniva considerato il principe dell’elegia. Quando morì (fu poi sepolto nell’Abbazia d Westminster) furono numerose le elegie scritte in suo onore, volendo gli autori delle stesse tramandare ai posteri il valore di una fama conseguita proprio attraverso l’elegia. Ma la sua eredità non si limita certo a questo genere di componimento.

Il suo verso — simbolo di una temperie culturale fatta di eleganza e di armonia, ma anche di guizzi e forti pulsioni — esercitò un’influenza non certo marginale su poeti del calibro di Alexander Pope e di Samuel Johnson, che da lui attinsero una cifra stilistica di gran pregio, ovvero la sintesi di grazia formale e profondità di contenuto.

di Gabriele Nicolò