Nelle Filippine presuli e organizzazioni cattoliche denunciano la precarietà del sistema detentivo minacciato dalla pandemia

Emergenza carceri

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16 maggio 2020

L’emergenza covid-19 rischia di far esplodere il già precario sistema carcerario filippino. Anche perché «l’atteggiamento poco compassionevole ed eccessivamente severo delle forze dell’ordine, nel far rispettare il blocco totale imposto dal governo per il covid-19, non fa che aggravare la situazione. I poveri, esasperati e in cerca di cibo, vengono etichettati e trattati come criminali», riferiscono all’Osservatore Romano i sacerdoti lazzaristi che a Manila hanno organizzato un servizio di assistenza e consegna di alimenti agli indigenti e sono testimoni di fermi e arresti operati dalle forze dell’ordine. A Quezon City, una delle città che compongono la Metro Manila, fioccano arresti di persone che hanno infranto le regole della quarantena imposta dal governo. Ma in celle di cinque metri per cinque, si arriva ad ammassare fino a 30 detenuti, denunciano gli attivisti. Nelle stanze di detenzione temporanea, alle stazioni di polizia, quanto nelle carceri, il distanziamento risulta impossibile, come è problematico l’accesso ai servizi igienici, il lavaggio frequente delle mani, e vi è carenza o assoluta mancanza di disinfettanti o mascherine protettive.

Oltre 20.000 arresti sono stati effettuati dalle forze di polizia in poche settimane, per violazione della quarantena e del coprifuoco. «Se la polizia continua a compiere arresti indiscriminati, la popolazione di detenuti continuerà a crescere e peggiorerà la sua situazione», nota Raymund Narag, docente filippino alla Southern Illinois University negli Stati Uniti e studioso del sistema carcerario nel suo paese di origine. «I nostri centri di detenzione della polizia sono estremamente congestionati e non hanno la capacità di separare, tanto meno di isolare, le persone infette».

La lente di ingrandimento delle istituzioni si è spostata sulle prigioni di stato perché gli istituti rischiano di diventare cluster incontrollati per la diffusione del coronavirus. I peggiori focolai finora si sono verificati in due carceri nell’isola di Cebu, nelle Filippine centrali, dove sono stati denunciate 348 infezioni tra gli oltre 8000 detenuti. Per cercare di contenere il fenomeno, la Corte suprema delle Filippine ha impartito una direttiva ai tribunali, ordinando di disporre il rilascio dei detenuti in attesa di processo e tuttora in carcere perché impossibilitati a pagare una esigua cauzione. In seguito al provvedimento, 9731 detenuti sono stati rilasciati nella speranza di limitare il sovraffollamento.

Tuttavia, nonostante i recenti interventi, i cronici problemi strutturali rischiano di vanificare ogni sforzo: nelle carceri filippine, secondo l’Institute for Crime & Justice Policy Research (Icpr) della University of London il tasso di sovraffollamento è il più alto al mondo: tocca il 500 per cento e risulta in crescita dal 2016, quando il presidente Rodrigo Roa Duterte ha dato il via alla violenta “guerra alla droga”, che ha contribuito a congestionare ulteriormente gli istituti di pena. Le strutture già versavano in condizioni insostenibili: edifici rudimentali, carenze di cibo e assistenza sanitaria, brutalità, maltrattamenti denunciati dalle organizzazioni per i diritti umani come l’Ong filippina “Karapatan” (“Alleanza per il progresso dei diritti del popolo”). Va notato che il codice penale nazionale risale agli anni ‘30 del secolo scorso, mentre il sistema carcerario è improntato a una logica essenzialmente punitiva. Numerosi penitenziari sono plurisecolari, costruiti dai colonizzatori spagnoli a partire dal XVI secolo. «Inoltre, i ragazzi dai 15 anni in su sono ospitati in carceri con gli adulti, e il governo vorrebbe perfino abbassare l’età della responsabilità penale, comminando pene carcerarie a ragazzi dai 12 anni in su. La mescolanza di adulti e ragazzi rende più facili gli abusi sessuali sui minori», segnala preoccupato il missionario cattolico irlandese padre Shy Cuellen, che ha creato nelle Filippine la Fondazione “Preda”, impegnata per la tutela dei minori. Si aggiunga, poi, che oltre il 90 per cento dei detenuti (la popolazione carceraria complessiva supera i 200.000 elementi) proviene dagli strati più poveri della popolazione e che, data la corruzione endemica, prosperano dietro le sbarre il traffico di droga e alcolici.

Oggi, allora, la diffusione della pandemia di covid-19 è un elemento che può far potenzialmente deflagrare l’intero sistema. Gli attivisti per i diritti umani e i religiosi cattolici impegnati nel ministero della pastorale carceraria concordano nel chiedere al governo di mettere in atto misure per decongestionare il sistema. «Si potrebbero in primis liberare tutti i prigionieri politici e di coscienza», afferma Karapatan, mentre Human Rights Watch chiede di liberare i detenuti in carcere per reati minori e quelli in precarie condizioni di salute per creare spazio.

La preoccupazione è confermata dal gesuita padre Eli Rowdy Y. Lumbo, direttore esecutivo della Fondazione della Compagnia di Gesù per la pastorale dei detenuti e cappellano alla New Bilibid Prison, a Muntinlupa City, nella Metro Manila. Nell’istituto, lo scorso gennaio vi erano oltre 29.000 detenuti, su una capacità dichiarata di 6400 posti. «Le condizioni sono difficili — afferma il religioso al nostro giornale — ma vediamo anche segni di speranza: ho appena ricevuto da anonimi donatori 500 materassini per i detenuti che dormono per terra, 250 mascherine protettive e flaconi di disinfettante. La nostra certezza è che Dio ama i carcerati. Dio conosce le loro difficoltà e il loro dolore. Sono suoi figli. Così li consideriamo e diamo loro ogni attenzione». Sulla paura per la diffusione del coronavirus, il gesuita afferma: «Nelle carceri si deve fare il possibile, ma la precaria situazione è sotto gli occhi di tutti. Quanto possiamo fare ora è aspettare e pregare. Facciamo del nostro meglio, ma sappiamo che Dio provvede davvero. Avverto — prosegue il cappellano — la loro paura e le loro ansie. Ma sento anche che Dio non li abbandonerà. Ho spesso detto loro durante la celebrazione eucaristica che i momenti in cui hanno fame, provano paura o tristezza sono in realtà occasioni di grazia. Questi sono i momenti in cui Dio darà loro conforto e forza, asciugherà le loro lacrime e restituirà loro una speranza».

«La nostra attenzione e solidarietà, in questo tempo difficile — afferma monsignor Joel Z. Baylon, vescovo di Legazpi e presidente della Commissione per la pastorale carceraria della Conferenza episcopale filippina — si concentra sulle condizioni dei nostri fratelli e sorelle che sono in prigione, privati della libertà e dei più elementari diritti umani. Siamo tutti consapevoli del fatto che in molti dei penitenziari le condizioni di vita sono disumane. Chiediamo ai nostri leader di adottare misure per alleviare le sofferenze, garantire protezione, rispettare la dignità umana dei detenuti. A loro doniamo la misericordia e la compassione di Dio».

di Paolo Affatato