· Città del Vaticano ·

Il ruolo del Giappone in Africa

Una partnership capace di andare oltre il tradizionale aiuto economico

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07 aprile 2020

L’interesse dei paesi asiatici nei confronti dell’Africa è sempre più crescente. In particolare, oltre alla Cina e all’India, è significativo l’impegno giapponese. In effetti, prim’ancora che si affermassero le competizioni determinate dalla globalizzazione dei mercati, il Giappone si qualificò, fin dalla prima ora, come donor di tutto rispetto all’interno del Development Assistance Committee (Dac), un forum di alto livello per discutere le questioni relative agli aiuti, allo sviluppo e alla riduzione della povertà nei paesi in via di sviluppo. Fu però al termine della guerra fredda che il Giappone diede grande impulso alla cooperazione con l’Africa, quando, nel 1993, si svolse la prima edizione del Tokyo International Conference on African Development (Ticad).

L’obiettivo era quello di rafforzare il processo di sviluppo del continente africano su più livelli: infrastrutture, sicurezza, tecnologia, agricoltura, educazione, commercio. Allora però il paese del Sol Levante imperniò molti dei suoi sforzi sulla fornitura di aiuti economici ai diversi paesi africani. Con il tempo la Ticad, che si riunisce dal 2013 ogni tre anni, ha comunque subito una graduale evoluzione facendosi sempre più interprete, come vedremo più avanti, di una politica di partenariato e dunque iscrivendo le forme di aiuto in una più ampia cornice, in cui il sostegno allo sviluppo dei paesi beneficiari va di pari passo con il perseguimento di un mutuo interesse.

L’approccio nipponico, incentrato sulla forte operatività e competitività delle imprese, consente agli investitori del Sol Levante un cospicuo accesso al credito rispetto alle omologhe europee, nonché incentivi statali riguardanti investimenti ed esportazioni; un indirizzo che ripaga in termini di internazionalizzazione, sviluppo degli investimenti e crescita degli scambi commerciali, dichiaratamente win-win, essendo esplicita la volontà di considerare i paesi beneficiari africani come attori alla pari.

Dal 28 al 30 agosto scorso, si è svolta a Yokohama la settima edizione della Ticad sul tema «Avanzare lo sviluppo dell’Africa attraverso le persone, la tecnologia e l’innovazione» e vi hanno preso parte le delegazioni di 42 paesi africani, il numero più alto da quando si svolge questo importante appuntamento presieduto dal Giappone ma organizzato congiuntamente alle Nazioni Unite, al Programma di Sviluppo (Undp), alla Banca Mondiale (Bm) e alla Commissione dell’Unione Africana (Ua).

Il premier nipponico Shinzō Abe, durante la sessione di apertura della Conferenza, ha ricordato che dal 2016 al 2019 gli investimenti privati giapponesi in Africa hanno raggiunto i 20 miliardi di dollari, mentre 10 miliardi sono stati finanziati direttamente dal governo di Tokyo. È stato così conseguito l’obiettivo complessivo dei 30 miliardi per le infrastrutture promessi nel corso della Ticad vi svoltasi a Nairobi, in Kenya nel 2016.

E la volontà del governo giapponese, nei prossimi tre anni, è di proseguire questo partenariato con l’Africa, attraverso nuovi investimenti del settore privato pari a 20 miliardi di dollari. Secondo i dati forniti dal ministero degli esteri giapponese, il ruolo svolto dalla Ticad in questi anni è stato di tutto rispetto nel continente africano.

Ad esempio, tra il 2008 e il 2013, il paese asiatico ha realizzato 1321 scuole, ristrutturato e riqualificato 4778 strutture sanitarie e mediche e ha garantito l’accesso all’acqua potabile a quasi 11 milioni di persone. Sta di fatto che proprio dal 2016, il premier nipponico Abe, intervenendo alla  Ticad vi di Nairobi, ha fatto intendere che il suo paese da quel momento in poi sarebbe dovuto diventare più un «partner» che un «donor» per i paesi del continente africano.

E così è stato a riprova che l’adagio di clintoniana memoria, «trade, not aid» (“commercio non aiuti”), è ormai parte integrante delle linee guida della politica internazionale di Tokyo in Africa; una partnership dunque capace di andare oltre il tradizionale aiuto economico, e in grado di includere i progetti infrastrutturali, unitamente alla crescita delle risorse umane.

Il dato interessante, comunque, è che nel bel mezzo della crisi, a livello planetario, del cosiddetto multilateralismo, Tokyo, proprio attraverso la formula del Ticad, insiste nell’affermare questo orientamento coinvolgendo le  grandi istituzioni internazionali come l’Onu e la Bm, ma anche un organismo panafricano di tutto rispetto qual è appunto la Ua. Un partenariato, dunque, a trecentosessanta gradi, in antitesi al bipolarismo molto caro ad altre diplomazie legate a logiche politiche bipolari. 

L’opzione, all’insegna del multilateralismo di matrice nipponica, trova la sua sintesi nel lancio dell’iniziativa Free&Open Indo-Pacific (Foip), in italiano Strategia indo-pacifica libera e aperta, che, non a caso,  ha ricevuto proprio nella Ticad di Yokohama del 2019 grande risonanza. Già nel 2013, all’inizio del suo secondo mandato come premier, Abe propose questa iniziativa, alla prova dei fatti competitiva rispetto alla Belt and Road Initiative, meglio nota come «Via della Seta», fortemente voluta dal presidente cinese Xi Jinping per unire Pechino agli stati eurasiatici e al continente africano.

L’offerta nipponica, attraverso la formula Foip, intende sviluppare, assieme ad altri partner internazionali, una vasta rete infrastrutturale capace di incentivare gli scambi commerciali. Il principale obiettivo del Foip è quello di promuovere quella che viene definita una sorta di «connettività commerciale» tra Asia, Oceania, Medio Oriente e Africa.

Ed è proprio il continente africano, nelle intenzioni di Tokyo, uno dei beneficiari di questo indirizzo che risponde fondamentalmente a tre esigenze strategiche del Sol Levante. Anzitutto salvaguardare le rotte marittime, poiché il 90 per cento del commercio giapponese avviene lungo gli oceani. In questo senso giocano un ruolo cruciale i porti africani. Non a caso due compagnie giapponesi, Penta-Ocean Construction Co. Ltd e Toa Corporation, si sono aggiudicate una serie di contratti per lo sviluppo del porto di Nacala, in Mozambico. Lo stesso è avvenuto per la  Toyo Construction Co. impegnata nella riqualificazione del porto di  Mombasa, in Kenya, considerato di importanza capitale poiché hub connesso all’Inter-African Highway 8, l’autostrada  che un giorno collegherà Lagos, in Nigeria, alla città keniana.

Vi è poi un’altra esigenza da parte del Giappone, quella di sopperire alla mancanza di materie prime, fonti energetiche in primis (soprattutto dopo l’incidente nucleare della centrale di Fukushima). L’Africa da questo punto di vista, è una miniera a cielo aperto e lo sanno bene in particolare i cinesi che già da anni portano avanti molteplici attività estrattive in diverse parti del continente africano. Vi è poi un altro aspetto che interessa non poco al Giappone: quello demografico. Mentre l’Africa cresce in termini esponenziali, il trend giapponese è di segno negativo: la popolazione nipponica sta diminuendo di 400 mila persone l’anno e quasi il 30 per cento dei giapponesi ha un’età superiore ai 65 anni ed entro il 2040 la percentuale dei giapponesi con un’età pari ai 65 anni potrebbe raggiungere il 40 per cento del totale.

L’invecchiamento della società giapponese ha prodotto carenze di forza lavoro in innumerevoli settori industriali con l’esigenza di incrementare il numero dei lavoratori stranieri, attraverso un opportuno quadro normativo. Ecco che allora l’Africa potrebbe, secondo alcuni analisti, rivelarsi per il Giappone come una realtà strategica dove investire capitali per l’industrializzazione del continente, attingendo alla copiosa forza lavoro disseminata un po’ ovunque.

Come molti ricorderanno, a cavallo tra gli anni 1960 e 1990, nell’Estremo Oriente vi fu il boom delle Tigri asiatiche (Corea del Sud, Singapore, Taiwan e Hong Kong) che, al traino del Giappone, raggiunsero alti livelli di sviluppo attraverso percorsi di industrializzazione, cambiamento strutturale e crescita comunemente considerati di successo.

Sarà lo stesso con l’Africa? Nessuno dispone di una sfera di cristallo per leggere il futuro ma è evidente che molto dipenderà dall’assunzione di responsabilità reciproca delle classi dirigenti. Sono infatti evidenti i limiti dell’economia liberista in termini di generazione di equità e benessere.

La percezione di una insostenibilità ambientale, sociale ed economica è evidente oggi anche in Africa. Si rende pertanto necessario un cambiamento orientato a un’economia più etica e civile che ponga la persona umana al centro, e di cui le imprese e la politica devono farsi carico per il perseguimento del bene comune, come peraltro auspicato da Papa Francesco nel suo illuminato magistero sociale.

di Giulio Albanese