È morto stroncato dal coronavirus il cantautore statunitense John Prine

Quel certo sorriso

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John Prine poses in his office in Nashville, ...
10 aprile 2020

È un big old goofy world, “un gran vecchio mondo sciocco”, dove a indossare un sorriso rischi che ti arrestano. «Fortunatamente ho la chiave per sfuggire alla realtà potresti vedermi stasera con un sorriso illegale non costa molto, ma dura a lungo vuoi per favore dire al poliziotto che non ho ucciso nessuno, no, sto solo cercando di divertirmi un po’» cantava John Prine con il suo tipico dolce disincanto, una delle ultime grandi voci dell’America, quella middle class, operaia (prima di cominciare a fare dischi lavorava come postino), morto alcuni giorni fa colpito anche lui dal coronavirus a 73 anni di età.

E pensare che era sopravvissuto a ben due tumori, uno al collo e uno ai polmoni, ma questo virus, lo sappiamo, non risparmia nessuno e sta colpendo anche la comunità artistica. Diversi i grandi personaggi scomparsi: nello stesso giorno di Prine se ne sono andati ad esempio anche il produttore musicale e teatrale Hal Wilner e il compositore David Horowitz, che anni fa produsse un disco di Claudio Chieffo, grande voce della musica cristiana italiana. Un mondo, quello cantato da John Prine in quasi 50 anni di carriera, simile ai racconti di Raymond Carver, anche se Bob Dylan, uno che raramente concede commenti sui suoi colleghi, ha definito «puro esistenzialismo proustiano, una mente del Midwest all’ennesima potenza».

Come Carver e Proust, Prine ha descritto con eleganza, poesia, compassione il piccolo mondo quotidiano di ognuno di noi, fatto di amarezze, nostalgia, sconfitte, ma anche speranza, gioia di vivere, di gustare ogni cosa accettando quello che la vita ci dona. Ma le sue ballate folk, rese tipiche dallo splendido fingerpicking chitarristico di scuola tradizionale, sapevano anche calarsi nella solitudine più lancinante. Ad esempio quando, ancora ventenne, seppe descrivere in Hello In There la vita fatta di ripetitività e mancanza di attesa di una coppia di anziani con i figli ormai lontani, invitando ciascuno di noi a guardarli con rispetto, a fermarci qualche minuto alla loro porta e salutarli. In questo momento storico dove gli anziani sono le vittime di una strage che sta cancellando una generazione, questa canzone diventa profetica. Così come ha saputo descrivere in modo agghiacciante il ritorno a casa dei veterani della guerra in Vietnam, lasciati soli dal loro stesso paese perché di una guerra persa ci si vuole dimenticare, condannati a sprofondare nella droga, alzando la grande domanda che ognuno si pone davanti alla morte e al dolore senza senso: perché Dio sembra non rispondere al nostro pianto? «C’è un buco nel braccio di papà dove vanno tutti i soldi, Gesù Cristo è morto per niente, suppongo. Le canzoni dolci non durano mai troppo a lungo sulle radio rotte».

Come un po’ rotti siamo tutti. Ma Prine ha saputo conservare il suo sorriso illegale fino all’ultimo, quando già prevedeva il giorno della sua morte: «Quando arriverò in Paradiso, stringerò la mano a Dio lo ringrazierò per tutte le benedizioni che mi ha dato, più di quante un uomo può averne poi prenderò una chitarra e fonderò una rock’n’roll band, sistemazione in un hotel di lusso; non è grande l’aldilà?».

di Paolo VItes