LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
La Storia era già qui ma non l’abbiamo riconosciuta

La responsabilità di (ri)vivere

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17 aprile 2020

In linea con quanto indicato dal direttore de L’Osservatore Romano lo scorso 4 aprile (Aiutare oggi e immaginare il domani. L’esempio di De Gasperi), questo è il momento di pensare a chi diventeremo. Partiamo, come segno rivolto a ciascuno e al mondo, e a ciascuno nel mondo, dalla preghiera di Papa Francesco del 27 marzo. Quell’immagine di Francesco solo nella piazza, al contempo tragica e ricca di speranza, ci evoca un silenzio che non è assenza di parola ma che attraversa le nostre parole vuote, vanitose, inutili.

Francesco ci ha ricordato ciò che è straordinariamente necessario tanto quanto impossibile: che nessuno si salva da solo. Sul fatto che sia necessario non può esserci dibattito, sul fatto che sia impossibile dipende dal fatto che ciascuno di noi, e gli Stati che ci governano, talvolta mettiamo/mettono davanti al futuro comune i propri rapporti di forza, le proprie ambizioni (com’è sempre accaduto, insomma). Come se il dopo-pandemia fosse “occupabile” da qualcuno, come se questa pandemia non rappresentasse una straordinaria lezione per tutti.

Va detto, fin da subito, che non avremmo dovuto aspettare questo coronavirus. Già nel 2007/2008, in occasione della ben nota pandemia finanziaria, avremmo potuto capire che siamo immersi in un cambio di era. Eppure non è successo, abbiamo continuato imperterriti a credere nell’urgenza di un sistema planetario considerato inevitabile, come se il processo storico fosse inarrestabile, se si fosse dovuto lasciar fare solo ai competenti, a chi aveva capito tutto; come se le differenze non esistessero, se il pianeta non avesse un suo equilibrio da preservare e da consolidare. Abbiamo vissuto, in sostanza, in una sorta di infinito presente, in una permanente “fine della storia”.

Eppure la storia era lì, mai lineare, a dirci che non era finita. Era lì con tutte le sue contraddizioni e le sue fragilità, che sono le nostre. Abbiamo accompagnato la “fede” in un inarrestabile progresso con una mancata riforma del pensiero. Ci siamo illusi, sarebbe meglio dire auto-ingannati, che quel verso della storia fosse l’unico possibile. Come se, in ogni istante, si fosse ripetuto (e si ripetesse) simbolicamente il crollo del muro di Berlino. Ci siamo detti, convincendocene, che eravamo dalla parte giusta della storia.

Poveri noi. Ma ora? Crediamo che sia venuto il tempo di accogliere la responsabilità di (ri)vivere. Qualunque sia la nostra tensione culturale e religiosa, ci vuole una nuova alleanza. E ci vuole un pensiero adeguato ai tempi. Proponiamo qui quattro nodi, proponendoci di svilupparli in un dibattito ampio e transdisciplinare.

Il primo punto riguarda il ruolo dell’educazione e della formazione. Il recente appello dell’Unesco, ripreso da questo giornale, va nella giusta direzione. Se non ripartiamo dal far maturare classi dirigenti, come possiamo pensare di cambiare via? Il sistema educativo e della formazione (fino all’università e oltre) ha il dovere di (ri)pensarsi nel senso di aiutare a comprendere un mondo non più “ordinato” secondo paradigmi novecenteschi e non più “ordinabile” secondo gli stessi. Un mondo in tre mondi: della connettività e dell’innovazione; del disagio e delle diseguaglianze; dei conflitti e dei muri. Un mondo, in sostanza, nel quale le luci e le ombre (con)vivono, tanto quanto i processi lineari e complessi, prevedibili e imprevedibili. Un mondo in metamorfosi, grazie, soprattutto, alle innovazioni tecnologiche e al loro impatto nelle nostre vite. In questo mondo, con il quale dobbiamo fare i conti, quale educazione e formazione possiamo dare ai più giovani? Per quali prospettive, verso quali lavori? Sarebbe meglio non parlare più solo di futuro ma di futuri e di contro-futuri.

Il secondo punto, mai affrontato seriamente negli ultimi trent’anni, riguarda il rapporto tra Stato e mercato e, soprattutto, tra quale Stato e quale mercato. È bene avviare dialoghi che, portando dentro l’inevitabile dialettica, si pongano il tema strategico del rapporto Stato-mercato-uomo. In una visione a-centrica, ciò che va (ri)pensato è la relazione. Anche la riproposizione d’importanti approcci keynesiani non basta più: servono altri paradigmi, altre logiche, per altre dinamiche. Il mondo di Keynes è finito, irrimediabilmente.

Il terzo punto riguarda l’innovazione tecnologica. Certo vi sono rischi (quelli analizzati da Shoshana Zuboff in “Il capitalismo della sorveglianza” sono ben realistici) ma anche grandissime opportunità. Dobbiamo guardare alle “buone” tecnologie, quelle che — in questa fase di emergenza — ci mostrano le potenzialità di un dopo che spetta a noi rendere possibile. Nuove prossimità, forme di didattica, lavori e modalità di lavoro, migliore efficienza nei servizi pubblici alla persona (si pensi, in particolare, alla sanità) sono già “in nuce” e, in molti casi, già parte dei nostri modi di vita. Attraverso le tecnologie, infine, possiamo (ri)pensare il pensiero, una filosofia-nel-presente: compito arduo ma più che mai fondamentale nel cambio di era.

L’ultimo punto riguarda il delicatissimo rapporto tra costruzione della communitas e bisogno dell’immunitas. Da sempre, e per sempre, l’uomo cerca l’alterità e, al contempo, ha un bisogno di difesa da ciò che ancora non conosce (sia anche l’altro) e da ciò che lo minaccia. Il momento di preghiera meravigliosamente “tempiterno” (che passa “attraverso” il tempo, nella sua unità, senza separazione tra passato, presente e futuro) offerto da Francesco si cala in un mondo diviso, fragile che sembra aver smarrito ciò che, misteriosamente, lo tiene insieme. Un mistero che si può (ri)trovare nel “comune”, luogo tutto da costruire attraverso l’esercizio della nostra responsabilità e “schiacciato” tra ciò che è privato e ciò che è pubblico. Si tratta di un lavoro complesso e paziente. Se vediamo nascere, e crescere, forme di (com)partecipazione in diversi ambiti della nostra vita, dai rapporti personali alle relazioni internazionali, altrettanto emergono — e si radicalizzano — voglie di exit, di autarchia, di esasperazione di moti di protezione, d’illusioni di auto-sufficienza. Communitas (bisogno di alterità) e immunitas (bisogno di difendersi) devono entrare in dialogo, mai più sfidarsi, parti non eliminabili nel nostro percorso esperienziale.

(Ri)vivere, dunque, perché dalla crisi non usciremo come ci siamo entrati. Accogliamo questo tempo per accogliere l’oltre che già vive nel nostro presente.

di Vincenzo Scotti
e Marco Emanuele