«Gli abitanti del Castelletto» di Mirjam Viterbi Ben Horin

Il racconto che ferma il tempo

gliabitantidelcastelletto - cover.jpg
04 aprile 2020

Raccontare salva la vita. Lo si comprende appieno leggendo Gli abitanti del Castelletto. Una luce nel buio della Shoah di Mirjam Viterbi Ben Horin (Milano, Edizioni Francescane Italiane, 2020, pagine 96, euro 12), medico e scrittrice, che oggi vive a Gerusalemme.

L’autrice, quando mette giù questa raccolta di brevi racconti su di un piccolo quaderno verde, ha solo dieci anni. È il 1943 e vive il livore nazi-fascista da cui dipende il trasferimento, suo e della sua famiglia, da Padova ad Assisi. Ma pure una nuova identità: i Viterbi, infatti, cambiano cognome in Vitelli, passando per Varelli, e, sui documenti ufficiali, da veneti diventano leccesi.

Così, nella città di san Francesco e di santa Chiara, grazie all’aiuto dell’allora vescovo Giuseppe Placido Nicolini, Mirjam si nasconde per sfuggire alla persecuzione e alle leggi razziali. Esclusa dalla vita di fuori e isolata nella vita di dentro, si ritrova rinchiusa in due stanze insieme al padre, alla madre e alla sorella maggiore, e, proprio in questo clima d’emarginazione, avvia la stesura del quadernetto, testimone muto dell’ingiustizia, su cui prendono vita personaggi fantastici, paesaggi, mondi e universi meravigliosi che brulicano d’una straripante umanità. S’inventa il Paese delle Ore, il Paese dei Minuti e quello dei Secondi, la piccola autrice, dove abitano l’amico Vento, angeli custodi, famiglie felici, bambini che sorseggiano cioccolate calde, soffiano bolle di sapone e si stupiscono persino per la neve che cade leggiadra sui palmi delle loro mani.

Ecco, dunque, che raccontare equivale per la bambina-scrittrice a fermare il tempo: costruire un luogo lontano da quello reale, nel quale trovano spazio solo il lieto fine e i buoni sentimenti, significa allontanare da sé la dirompente solitudine, proteggersi da tutto il rumore esterno.

Elias Canetti nel suo Libro contro la morte scrive così: «Raccontare, raccontare finché non muore più nessuno. Mille e una notte. Milioni e una notte». E così, come Shaharazad, fanciulla protagonista de Le mille e una notte, che oppone alla fine della sua esistenza l’antidoto della narrazione, anche Mirjam utilizza i suoi racconti per sconfiggere la paura.

Nella premessa de Gli abitanti del Castelletto, che tra l’altro è stato pubblicato sotto forma di scansione digitale del quadernetto verde, Mirjam, tutto ciò, lo suggerisce quando scrive che «costruire un mondo dove tutto era bello, possibile e buono [rappresentava un modo] per salvare se stessa». E, ancora, quando spiega, introducendo il suo preziosissimo lavoro, come lo scrivere, il raccontare storie per l’appunto, l’abbiano vivificata, nonché resa capace di affrontare il timore, l’inquietudine di poter essere scoperta e poi deportata. «Io vivevo in quelle pagine», rende noto la scrittrice e, proprio in questa frase, si concretizza la sua fuga verso la libertà; fuga da ritenersi impossibile senza la fantasia, la fiaba, lo scrivere o il leggere ad alta voce.

Nel romanzo, che quindi da semplice raccolta di storie diventa vera e propria testimonianza di Storia, c’è la carta ingiallita: grazie alla fedelissima riproduzione del vecchio quaderno ci si immerge nella scrittura a matita, nelle cancellature, nelle ultime pagine strappate e persino nelle illustrazioni della bambina.

In definitiva, riprodurre il libro in questa forma, portarlo in tale maniera alla conoscenza dei lettori, appare una scelta fondamentale. Perché è come toccare con mano la speranza di Mirjam che, con quelle pagine, tentò di proteggersi dalla brutalità del mondo.

Il quadernetto verde, dopo più di settant’anni, viene comunque arricchito, non solo dalla postfazione della psicoterapeuta Miriam Marinelli, ma anche dall’introduzione dell’attuale vescovo di Assisi, Domenico Sorrentino. Tocca a quest’ultimo delineare la cornice storica del romanzo, affidandolo alle future generazioni e non dimenticando di menzionare il Museo della Memoria della città dei già citati santi Francesco e Chiara, dove tuttora si rintracciano le carte d’identità della famiglia Viterbi e si documenta quanto accaduto tra il 1943 e il 1944 («Su questa irrimediabile vergogna [...] l’unico atteggiamento valido è quello di una memoria che non si attenua, anzi si coltiva, per seminare nel futuro dell’umanità e specialmente nelle coscienze dei giovani, un antidoto perenne, che impegni tutti a fare in modo che simili orrori non si ripetano, per gli ebrei, e per ogni altro popolo»).

Il vescovo Sorrentino fa luce, in particolare, sul ruolo ricoperto, negli anni delle persecuzioni naziste, dal suo predecessore, Nicolini che, insieme ad altri ecclesiastici e laici, salvò «un numero imprecisato ma notevole di ebrei».

Tra questi, non a caso, la piccola Mirjam. Mirjam Viterbi Ben Horin, che ha il merito di raccontare la Shoah evitando di raccontarla, e di tracciare, a chiare lettere, il mondo che tutti vorrebbero offrire ai propri figli.

di Enrica Riera