A Bangui pochi casi di coronavirus ma il sistema sanitario non è pronto

Il paradosso centrafricano

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17 aprile 2020

«È una situazione capovolta e paradossale quella di essere messi meglio dell’Europa. Per una volta chi soffre non è l’Africa. Ma non dimentichiamo che l’Africa resta povera e lo sarà ancora di più se esploderà anche questa crisi». A parlare della situazione nella Repubblica Centrafricana rispetto alla diffusione del coronavirus è padre Federico Trinchero, del monastero del Carmelo di Bangui. Originario di Casale Monferrato, da undici anni missionario in Centrafrica, padre Trinchero si occupa della formazione dei giovani a Bimbo, periferia della capitale, un complesso con un vasto terreno agricolo di 130 ettari. Durante la visita di Papa Francesco nel 2015, in apertura del Giubileo della Misericordia, qui erano accolti oltre 10.000 profughi in fuga dalle violenze di un conflitto che si è concluso da poco.

In Centrafrica finora sono stati segnalati 12 casi di covid-19, di cui due residenti a Bangui. «Questi due nuovi casi e i due precedenti confermano l’esistenza di una trasmissione locale», afferma una nota del ministero della salute e della popolazione. Le autorità stanno cercando di isolare tutte le persone con cui i contagiati sono venuti in contatto e invitano la popolazione «alla calma, alla solidarietà e alla cooperazione». Il punto critico è che qui l’assistenza sanitaria è una delle peggiori al mondo: mancano medici e infermieri e nel caso scoppiasse l’emergenza sarebbe un disastro. «Abbiamo solo tre respiratori su una popolazione di cinque milioni di persone — spiega il missionario — la terapia intensiva non esiste, ci sono pochissimi letti. Lo Stato sa che se l’epidemia dovesse diffondersi saremmo in grande difficoltà».

Dal 27 marzo il governo ha chiuso le scuole di ogni ordine e grado, i bar, i ristoranti, le discoteche. Tutti i voli sono stati bloccati, le frontiere chiuse. I prezzi dei beni essenziali già stanno aumentando. «Le scuole normalmente sono molto affollate — dice padre Trinchero — ci sono classi con centinaia di allievi alle elementari, medie e superiori. Perciò bisogna essere molto prudenti, anche se il virus sembra che colpisca meno le fasce giovanili». In Centrafrica il 50 per cento della popolazione ha meno di 18 anni. Ma 2,2 milioni di persone vivono già in condizioni precarie, 700.000 sono sfollati a causa delle violenze subite dai vari gruppi armati che per anni hanno seminato il terrore nel Paese: gli anti-balaka (cristiani e animisti) e gli ex-Séléka (miliziani musulmani). Vivono in campi sovraffollati con poca acqua e scarsa igiene, per cui le misure di prevenzione come il lavaggio delle mani e il distanziamento sociale sono di difficile realizzazione. Perfino i caschi blu della Minusca, la missione di pace dell’Onu, sono scesi in campo per informare la cittadinanza sulle nuove norme comportamentali da adottare. Un altro problema sono i trasporti: le persone si spostano su “taxi-moto”, che possono trasportare anche tre o quattro persone: «I medici hanno proposto di non prendere più di un passeggero ma non pare li abbiano ascoltati». Anche i taxi collettivi portano fino a otto persone, mentre i minibus arrivano a 15 posti. «Sono sempre strapieni, bisognerà intervenire e fare attenzione».

A livello ecclesiale l’arcidiocesi di Bangui ha dato disposizioni di seguire le celebrazioni attraverso le due radio cattoliche. «Prima alle messe partecipavano 500 persone — ricorda il missionario — ora invece siamo solo noi frati della comunità». Anche il seminario dove insegna è stato chiuso e tutti i carmelitani restano per sicurezza a casa: «Ora abbiamo più tempo per la preghiera, c’è più silenzio e possiamo dedicarci al lavoro che non avevamo tempo di fare. Il morale è alto. Abbiamo sfruttato questi giorni di Pasqua per pregare di più e stare insieme. Come sentinelle che hanno la possibilità di celebrare l’Eucaristia tutti i giorni, sentiamo la responsabilità di portare gli altri nella preghiera».

I suoi confratelli sostengono che il virus non verrà «perché qui c’è più fede e preghiera»: «Lo speriamo — afferma — perché sarebbe una catastrofe in un Paese già segnato da guerra e povertà. Ricordiamo poi che abbiamo già migliaia e migliaia di bambini e adulti che muoiono per le epidemie di morbillo, la malaria, la tubercolosi, ma non fanno notizia».

Padre Trinchero spera in cuor suo che i 30 gradi di temperatura e il caldo impediscano la diffusione di un contagio massiccio come negli altri Paesi. Ma il vicino Camerun ha già quasi mille casi, «quindi bisogna fare comunque attenzione». Per certi aspetti gli africani sono più preparati a vivere situazioni di emergenza e di precarietà. «Abbiamo vissuto una guerra da poco — conclude il carmelitano — siamo abituati a stare in casa anche per 40 giorni. Vediamo giorno dopo giorno come andrà: Siamo nelle mani del Signore».

di Patrizia Caiffa