Leggere la storia e coltivare la speranza

Costruire nuove alleanze

People wave palms while attending a Palm Sunday mass, celebrated by a priest from the terrace of the ...
06 aprile 2020

La generazione che il virus si sta portando via dentro il silenzio straziante delle nostre città è fatta, in larga parte, di coloro che hanno visto la guerra e vissuto la difficile fase della ricostruzione. Gli ultrasettantacinquenni, quelli nati prima del 1945. Ci hanno parlato a lungo, nei loro ricordi, della povertà e semplicità della loro infanzia, della normalità del coraggio che occorreva per attendere la fine del conflitto, dell’angoscia con cui si partiva mettendo tutte le proprie cose dentro una valigia per andare a cercare fortuna al Nord, oppure all’estero. Della passione con cui ci si schierava politicamente di qua o di là, per tutta la vita, con un mondo diviso in due e con l’incubo della bomba atomica.

Per molto tempo ci siamo persuasi che tutte queste fossero cose del passato, che a noi non sarebbe potuto accadere. Pensavamo, noi che siamo nati nell’emisfero giusto, dalla parte fortunata del mare, nella fetta occidentale del mondo, di appartenere a una delle pochissime, o forse alla sola generazione nella storia dell’umanità per la quale tutto era garantito, tutto poteva essere dato per acquisito: il benessere, la salute, il lavoro, la pace, la democrazia. Non per tutti, certo, ma per molti. Eravamo convinti che le guerre sarebbero rimaste lontane, anche quando erano vicinissime, appena oltre confine, al di là dell’Adriatico o del Mediterraneo. Che fame e povertà avrebbero continuato a rappresentare un problema anche qui, certo, ma per una fascia contenuta della società. Per non parlare del Creato, che per quanto sfruttato e maltrattato avrebbe continuato a offrirci le sue risorse, almeno per qualche secolo. Ci siamo convinti che persino la difficile crisi economica scoppiata negli scorsi anni sarebbe stata superata senza cambiare granché delle nostre abitudini e dei nostri sogni. Che le istituzioni democratiche, forgiate dai grandi conflitti ideologici e dagli anni bui del terrorismo, fossero ormai in grado di resistere a tutto. Che l’Europa fosse talmente consolidata da poter scherzare col fuoco della dissoluzione, e che un po’ di sano egoismo nazionale, in fondo, male non fa.

I giorni drammatici che stiamo vivendo ci dicono che non è così. Che anche a noi può capitare che la storia bussi alla porta e presenti il conto. Che nemmeno la cosa più semplice, camminare per le strade delle nostre città, incontrare le altre persone, toccarle, mangiare insieme, può essere data per scontata. Che non è detto che la scienza e la tecnica ci rendano invincibili. Che anche a noi, la generazione nata e cresciuta al sicuro da ogni pericolo, tocca passare attraverso una di quelle vicende della storia che travolgono ogni cosa, lasciando molte macerie alle proprie spalle.

Le tante ferite che questa esperienza ci sta infliggendo dovrebbero farci prendere maggiormente coscienza della fragilità di ciò che pensavamo inscalfibile, e che ci siamo abituati a dare per scontato. La pace, innanzitutto, perché la violenza, il desiderio di affermare il diritto del più forte, è l’unica altra forma di reazione che l’umanità ha a disposizione per far fronte a una crisi di queste dimensioni, in alternativa all’esercizio della fraternità e alla ricerca di una società mondiale più giusta. Il benessere, perché gli anni che abbiamo davanti a noi ci chiederanno sacrifici enormi e genereranno grandi tensioni sociali. La democrazia, che se non viene custodita con cura e partecipata con passione si svuota dall’interno e appassisce.

Ciò che più di tutto questa dolorosa esperienza ci consegna è però l’urgenza di maturare una nuova consapevolezza su ciò che il virus sta certificando nel modo più tragico: che davvero quella umana è una famiglia sola, al di là di tutte le differenze e le distanze, e che si salva solo se si comporta da famiglia. Ciò che stiamo vivendo dovrebbe aiutarci a comprendere in maniera differente le aspirazioni, la vita e le lacrime di chi conosce fin troppo bene il senso di timore e impotenza che ci ha avvolto in questi giorni, per esserci nato e cresciuto in mezzo. A causa della povertà, della criminalità, della guerra, degli sconvolgimenti climatici. E che quando usciremo di casa tornerà a chiederci di poter camminare per le strade delle nostre città, incontrare le altre persone, toccarle, mangiare insieme. Come tutti.

Non possiamo permetterci che la storia passi senza interrogarci a fondo sul nostro modo di vivere, di produrre, di confrontarci, di credere. A noi credenti, in modo particolare, è chiesto di abitare la storia leggendola in profondità e sapendo coltivare dentro di essa la speranza. Quella speranza che nasce, innanzitutto, dall’affidarci al Signore che risorge. Un Dio che ci parla e ci accompagna anche dentro le pieghe più drammatiche dell’esistenza e della storia, che non ci abbandona a noi stessi. Un Dio che salva e consola, che piange con noi, non certo un Dio che punisce o educa il suo popolo attraverso i flagelli. Un Dio che è padre, e ci rende fratelli. Saper leggere la storia e coltivare la speranza significa allora anche ricordare che siamo chiamati a vivere da fratelli. Capaci di custodire il sentimento di fiducia negli altri e di responsabilità verso tutti che questi giorni di condivisione ci lasciano in eredità, per tradurlo in ricerca di nuove alleanze. Alleanze tra istituzioni e cittadini, tra natura e abitanti della terra, tra politica e cultura, tra ricchezza e bisogno. Tra le nazioni, tra le generazioni, tra i territori. Tra credenti e non credenti. Perché più di ogni altra cosa questi giorni di sofferenza ci stanno insegnando che davvero «nessuno si salva da solo».

di Matteo Truffelli

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