È morto lo scrittore cileno Luis Sepúlveda

Addio alla voce dei mapuche

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16 aprile 2020

Luis («Lucho» per gli amici) Sepúlveda è morto il 16 aprile nell’ospedale universitario di Oviedo, in Spagna, dove era ricoverato da settimane per le conseguenze dell’infezione da coronavirus. Lo scrittore cileno, che viveva da diversi anni nella città di Gijón, era stato invitato a fine febbraio a un festival letterario, il Póvoa do Varzim al festival Correntes d’Éscritas, in Portogallo, insieme alla moglie, la poetessa Carmen Yáñez. Dopo aver partecipato al festival entrambi erano tornati in Spagna, dove sono stati diagnosticati i primi sintomi della malattia. Anche la moglie è stata tenuta sotto controllo; è stato il primo caso di coronavirus delle Asturie.

Sepúlveda era nato a Ovalle, in Cile, nel 1949; la madre Irma, amava ricordare, era di origine mapuche. Ed era nato “fuorilegge”, come ricorda Ranieri Polese nel suo commosso obituary uscito su «la Repubblica», con un mandato di cattura che pendeva sulla testa di suo padre, José, denunciato dalla famiglia di Irma per rapimento di minorenne e sequestro di persona.

A 17 anni iniziò a scrivere per il giornale argentino «Clarín»; nel 1969 pubblicò un libro di racconti, Crónica de Pedro Nadie, e vinse una borsa di studio per l’università di Mosca, che presto lasciò per tornare nel suo Paese. Arrestato e torturato durante il regime di Pinochet, dopo sette mesi di detenzione lasciò il Cile nel 1977 e visse per diversi mesi in Brasile, Paraguay e Nicaragua.

«Questo libro colma un debito che durava da tanti anni — scrive Sepúlveda nell’introduzione al libro Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà, una parabola sul rispetto per la natura pubblicata in Italia da Guanda cinque anni fa, dopo il grande successo di Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare (Salani, 1996) —. Ho sempre sostenuto che gran parte della mia vocazione di scrittore nasce dal fatto di aver avuto nonni che raccontavano storie, e nel lontano Sud del Cile, in una regione chiamata Araucanía o Wallmapu, ho avuto un prozio, Ignacio Kallfukurá, mapuche (termine formato dall’unione di due parole — mapu, terra, e che, gente — la cui traduzione corretta è Gente della Terra), che al tramonto raccontava ai bambini mapuche storie nella sua lingua, il mapudungun».

Non era facile, continua lo scrittore, capire cosa dicevano tutti gli altri mapuche nella loro lingua nativa «però capivo le storie che narrava il mio prozio. Erano storie che parlavano di volpi, puma, condor, pappagalli, ma le mie preferite erano quelle che raccontavano le avventure di wigña, il gatto selvatico. Capivo cosa raccontava il mio prozio perché, pur non essendo nato in Araucanía, nella Wallmapu, sono anche io mapuche. Sono anche io Gente della Terra. Ho sempre desiderato raccontare una storia ai bambini mapuche, al tramonto, sulla riva del fiume, mangiando i frutti dell’araucaria e bevendo il succo delle mele appena raccolte negli orti. Ora che mi avvicino all’età del mio prozio Ignacio Kallfukurá, vi racconto la storia di un cane cresciuto insieme ai mapuche. Di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà. Vi invito quindi in Araucanía, nella Wallmapu, il paese della Gente della Terra».

Dalla cultura degli indios Shuar, che vivono al confine tra Perú ed Ecuador, era nata l’ispirazione del suo primo romanzo, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, uscito in spagnolo nel 1989, diventato presto un best seller mondiale.

di Silvia Guidi