Croce e risurrezione nella musica di Bill Fay

Una trincea per difendersi dalla morte

Bill Fay
31 marzo 2020

L’inglese Bill Fay è un cantautore sui generis, quasi sconosciuto e di nicchia, lo stesso famoso. Il pianista vive con estrema lentezza, non cerca la popolarità e scrive canzoni senza preoccuparsi di pubblicarle. Non fa promozione né si esibisce dal vivo. La musica non è tutta la sua vita. Ha inciso pochi album in cinquant’anni di carriera, appena sette dischi. La sua ridotta discografia è da considerarsi tra le più importanti riguardo le corrispondenze con la spiritualità. Rammenta la tensione religiosa di Patti Smith e il timoroso rispetto di Eric Clapton nei riguardi di Dio. I primi tre album dal 1970 al 1976 furono un flop e presto dimenticati. La stampa lo attaccò brutalmente per alcuni testi considerati catastrofici. Espresse le sue idee politiche utilizzando il linguaggio profetico del libro di Daniele e il lessico dell’Apocalisse, tra i più simbolici e complessi della Bibbia. Deluso, si ritirò a vita privata. Per vivere svolse lavori umili come custode di un parco, garzone in una pescheria a incartare baccalà surgelati.

Gli ultimi quattro dischi prodotti tra il 2010 e il 2020 sono pacificatori, non privi di critiche verso i governi guerrafondai presi di mira nei primi due album. Bill canta di uomini che lottano per vivere, offrendo l’opzione della fede come risposta al male. A gennaio pubblica Countless Branches, a cinque anni di distanza da Who is The Sender?. Raccoglie tracce inedite e alcuni brani rivisitati o esclusi dalle precedenti produzioni. I temi sono la solitudine dei semplici, il desiderio della libertà e il bisogno di un riscatto sociale. In Love Will Remain canta l’inno alla carità di san Paolo apostolo, interpretandone due versi: «L’amore rimarrà e le profezie scompariranno».

Per cogliere la sua religiosità bisogna abbozzare un parallelo con le tre cantiche della Commedia di Dante. Descrisse l’inferno e l’anticristo in Time of the Last Persecution in cui affrettava l’avvento definitivo del Signore, sollecitando l’inizio di un mondo nuovo e la distruzione del vecchio. Il disco Tomorrow, Tomorrow and Tomorrow del 1976 lo condusse fuori dal pericolo di malattie e dipendenze, in Purgatorio. Difficile non commuoversi ascoltando la litanica We Are Raised: «Noi siamo risorti. Ci sediamo accanto a Lui ora, siamo cresciuti. Grazie per la vita che ci hai donato». Il tema della gratitudine ritorna nell’album Life is People, il suo capolavoro artistico pubblicato nel 2012, in cui sconfina con più convincimento sul terreno religioso. Un disco che è gioia per le orecchie e il cuore di chi lo ascolta.

La figura del Risorto appare come in trasparenza nei suoi testi. C’è un brano pasquale che squarcia le tenebre dell’ascoltatore, The Never Ending Happening (“L’incessante accadere”): «L’incessante accadere dei quattro venti che cambiano direzione... il sole che sorge ancora, il canto degli uccelli prima che il giorno ‎cominci. ‎Per qualcuno è come camminare su di una corda ‎tesa, bendati e tremanti. Dall’altra parte paura e dolore. L’incessante accadere‎ eterno della guerra e della piaga della fame, ‎nel desiderio che venga il giorno ‎in cui Dio farà rotolare via la pietra sepolcrale».

Dopo aver attraversato l’inferno e purgato le colpe, volge lo sguardo al sole che è il Signore. Un raggio lo raggiunge da Lassù e lo racconta. Bill è conquistato da Cristo. Indica la via per uscire dalla selva oscura. Basta alzare la testa e guardare nella sua stessa direzione.

Guardare, vedere, non abbassare lo sguardo è soprattutto l’esperienza narrata da Dante e spiegata da Franco Nembrini nel commento al primo canto dell’Inferno, edito da Mondadori: «Dante riesce ad arrivare al margine della selva e si ritrova ai piedi di una collina, alza la testa e vede il sole. In questo gesto di alzare lo sguardo c’è tutta l’umana dignità: siamo tutti ciechi, preda di un male che sembra invincibile; ma chi alza la testa può intuire un bene possibile». Nella canzone There is a Valley c’è lo stesso intendimento, la medesima scena. Un gemente, una valle di lacrime, il levare lo sguardo verso una collina, una luce.

Il protagonista della canzone guarda al Calvario, verso quella Luce cha appare in cima a un colle aspro: «C’è una valle dove l’albero svetta alto e soffia un vento gelido... C’è una collina vicino a Gerusalemme dove crescono fiori selvatici. I fiori non parlano, ma raccontano di una Crocifissione». Canta del dolore inchiodato su quel legno. Il brano C’è una valle così chiude: «Ogni contesa in città, ogni rissa, ogni proiettile sparato da una pistola, è scritto sui palmi delle mani di Cristo». Nell’Inferno di Dante come nella canzone di Bill Fay leggiamo in controluce il cantico di Isaia: «Farò camminare i ciechi per vie che non conoscono, li guiderò per sentieri sconosciuti; trasformerò davanti a loro le tenebre in luce, i luoghi aspri in pianura».

L’album è memoria della passione e morte degli uomini, un sacrificio che l’artista associa al Signore crocifisso. Adorante ai piedi della Croce, lo ringrazia in una canzone che è preghiera, Thank You Lord: «Grazie Signore per l’amore che mi hai mostrato. Tuo figlio sulla croce è sempre davanti a me. Non chiedo nulla per me stesso, ma per quelli che amo. Proteggili, tienili vicini al tuo cuore. Se dovessero allontanarsi da te, accoglili di nuovo tra le tue braccia. Grazie Signore, per avermi dato la vita». Parole che lasciano senza fiato.

La musica è una trincea per difendersi dalla morte. La diffusione su scala mondiale di un virus letale e la fragilità dei sistemi sanitari ha messo a dura prova la nostra fede. Morire ci spaventa, bisogna resistere e l’arte si presta a questo training spirituale. Citando Franco Battiato, converrebbe ascoltare i grandi del passato o le 12 sonate da chiesa del violinista Arcangelo Corelli per meravigliarci del creato e augurarci il meglio. Le canzonette non sono all’altezza dei più nobili desideri. Le giudichiamo alla stregua di un mero prodotto di consumo, passano subito quando non placano l’ansia del vivere. Il dubbio, l’angoscia e l’inquietudine che braccano l’anima rimangono sospesi tra mente e cuore. Quanta musica lascia l’amaro in bocca... quella di Bill Fay no.

Promette che, presto o tardi, Qualcuno verrà a rigenerarci e lo mostra in The Healing Day, brano centrale del disco. Tradotto vuol dire «Il giorno della guarigione». Qui troviamo un esercizio di scrittura formidabile che coinvolge l’autore, l’ascoltatore e i testi biblici: Giobbe e il Magnificat del vangelo di Luca. La vita di Giobbe che sembra finire senza un filo di speranza è il preludio al cantico della Beata Vergine Maria. Un passo più in là del dolore c’è sempre la gioia. Il giorno della guarigione è la summa in versi delle attese che si realizzano: «Verrà il giorno della guarigione, il tiranno non potrà più nuocere e il torturato verrà liberato dalla sua sofferenza. E chi sta in alto sarà caduto a terra, e chi sta in basso sarà sollevato».

The Healing Day riprende lo schema promessa-compimento del Magnificat perché recita che «non è così lontano il giorno della guarigione, sta arrivando per sempre il giorno della riconciliazione». E aggiunge: «Andrà tutto bene nel giorno della guarigione, non andremo più alla deriva». Andrà tutto bene, ripete Bill Fay. Quell’incitamento che ricorda la consegna di Giuliana di Norwich, quel «Ogni cosa andrà bene» che ci consola in questo tempo. Occorre pregare, affidarsi e ascoltare un buon disco di risurrezione per continuare a sperarlo.

di Massimo Granieri