Un rapporto della Caritas diocesana evidenzia la necessità di riformulare il concetto di indigenza. E di tornare a programmare

La povertà di fronte all’epidemia

La povertà di fronte all’epidemia
24 marzo 2020

La crisi che si sta vivendo in tutto il mondo rende drammaticamente evidenti le conseguenze degli squilibri sociali, in termini soprattutto di diverso accesso alla tecnologia e all’informazione. La condizione di povertà diventa in questi momenti l’elemento discriminatorio fra chi può affrontare un’emergenza come quella dell’attuale pandemia con armi e misure efficaci rispetto a quanti invece sono costretti a combattere questa battaglia metaforicamente a mani nude. Si pensi ad esempio all’accesso alla rete internet, che mai come in questo periodo è diventato una condizione vitale per avere informazioni tempestive, effettuare acquisti in sicurezza o per poter continuare le attività didattiche e lavorative. Ancora oggi esiste una parte consistente della popolazione che rimane fuori da queste opportunità, per una serie di circostanze che non sono solo legate al concetto tradizionale di povertà intesa come scarsezza di mezzi economici. Una riformulazione più precisa del concetto di indigenza è quindi quanto mai necessaria e sarà particolarmente utile quando, si spera nel più breve tempo possibile, si potrà ripartire facendo tesoro di quanto questo brutto periodo ci ha lasciato come lezione.

Torna utile, per esempio, prendere in mano la pubblicazione La povertà a Roma: un punto di vista. Anno 2019, realizzato dalla Caritas diocesana e pubblicato a gennaio scorso. Se lo sguardo, come dichiarato dal titolo, è riservato prioritariamente alla realtà capitolina, tuttavia le considerazione generali da cui muove il rapporto rimangono valide per tutta la realtà nazionale. Si parte infatti dalla riformulazione del concetto di povertà, che deve essere allargato e comprendere per esempio quelli che oggi vengono definiti gli “equilibristi”, persone che si trovano a camminare sul filo stretto che le separa dalla condizione di indigenza. In quella che è stata definita come “società liquida”, si legge nel rapporto, «la persona vulnerabile si ritrova a vivere costantemente su un “confine” che separa i poveri dai non poveri, o, come oggi spesso si sente dire, i penultimi dagli ultimi». Si deve parlare, in sostanza, di «impoverimento antropologico», inteso come intreccio fra difficoltà economiche, povertà educative e culturali e malesseri relazionali. L’effetto è quello, si evidenzia nel rapporto, di una diffusa infelicità, frutto del mancato soddisfacimento di bisogni più evoluti rispetto alle necessità primarie.

Un ascolto intelligente di queste necessità significa dunque anche saper avvicinare le situazioni di malessere meno evidenti. Fra queste, come dimostra quanto detto sopra in merito per esempio all’accesso alle opportunità fornite dalle tecnologie, figura in primo luogo la “povertà educativa”. In Italia la situazione non è fra le più felici: a fronte di una povertà assoluta che colpiva nel 2018 1 milione e 822 mila famiglie e una povertà relativa di oltre 3 milioni, si evidenza come ad essere più poveri sono gli individui con un livello di istruzione inferiore. Nella penisola i diplomati rappresentano il 60,1 per cento delle persone fra i 24 e i 65 anni (in Europa sono il 76,9) e i laureati il 17,7 per cento (in Europa il 30,7). Le competenze linguistiche in particolare continuano a far registrare un gap inaccettabile rispetto a quelle degli altri paesi.

Fin qui la situazione generale. Roma naturalmente vive una condizione particolare, in quanto capitale e in quanto città metropolitana che comprende per estensione un territorio quasi 5 volte quello di Milano e di poco inferiore a quello dell’intera Liguria. Come superficie, la città di Roma è superiore alla somma di quelle delle 8 città più grandi d’Italia (a livello europeo solo Londra è superiore). La popolazione nel corso del tempo ha subito notevoli trasformazioni. In questi giorni si mette in evidenza come l’invecchiamento sia, a livello nazionale, uno degli elementi più preoccupanti in termini di risposta sanitaria all’emergenza covid-19. La capitale non fa eccezione: gli anziani sono sempre di più e il numero dei giovani sotto i 17 anni cresce solo grazie agli immigrati. Il calo della natalità naturalmente è dovuto in gran parte alle difficoltà economiche e nella gestione della maternità: in questo senso fa riflettere come l’unica fascia di età femminile nella quale si è registrato un incremento delle gravidanze portate a termine sia quella delle donne con più di 44 anni di età. In generale, l’indice medio di vecchiaia è di 170,65 ogni 100 giovani. I quartieri “più giovani” sono quelli storicamente più popolari e più poveri, vale a dire quelli del quadrante orientale e meridionale della città, dove i redditi sono notevolmente più bassi e persistono un elevato tasso di disoccupazione, un’alta vulnerabilità sociale e una bassa scolarizzazione.

Insomma, la povertà è un fenomeno multidimensionale definito dalla relazione fra due elementi, individuati dagli economisti con i termini di capabilities e functioning, ovvero capacità individuali e funzioni realmente svolte nella società. Secondo il premio Nobel per l’economia Amartya Sen, «la tesi di fondo è che i funzionamenti siano costitutivi dell’essere di una persona e che una valutazione dello star bene debba prendere la forma di un giudizio su tali elementi costitutivi».

Una tesi confermata dall’esperienza fatta dalla Caritas diocesana attraverso i suoi vari organismi presenti sul territorio, dal Fondo famiglia alla Fondazione Salus populi romani, dagli Empori della solidarietà, al patronato Acli per la difesa dei diritti e l’accesso alle pratiche pubbliche, al Nucleo assistenza legale. Realtà che anzitutto mettono in evidenza come gli utenti, nella classifica delle richieste più pressanti, dopo il cibo, pongono in primo luogo il bisogno di essere ascoltati. Anche perché la rappresentazione della povertà, che spesso viene fatta coincidere (o confliggere) con il tema dell’immigrazione, sconta a livello informativo e politico una conoscenza sommaria, pregiudiziale o comunque inesatta. L’esempio più tipico è quello legato all’emergenza abitativa e alle rivolte contro l’accesso degli immigrati all’edilizia residenziale pubblica. Lo studio della Caritas mette in evidenza come il picco degli arrivi di immigrati nella capitale si sia verificato fra il 2000 e il 2013. Fino a quest’ultimo anno, le norme prevedevano che ad accedere alle cosiddette “case popolari” potessero essere prioritariamente solo quanti dimostravano di essere stati sfrattati da altra abitazione, circostanza che proiettava automaticamente i non italiani alla fine della lista. Questa circostanza ha spinto molti immigrati a spostarsi in zone della città dove gli affitti erano più accessabili, vale a dire per esempio alla Borghesiana, a Torpignattara o in località fuori Roma ma ben collegate, come Ladispoli. Il risultato è che i quartieri di edilizia residenziale pubblica, dove cioè è presente un numero maggiore di alloggi popolari, sono in realtà i meno multietnici della città. Il che smonta l’equazione tra forte presenza di immigrati, carenza abitativa e rivolta sociale, usata per spiegare episodi di violenza come quelli registrati lo scorso anno a Tor Bella Monaca.

Se oggi le norme sono cambiate e i requisiti per avere titolo a un alloggio popolare sono diversi e in parte più favorevoli agli immigrati (gli appartamenti costruiti in passato sono molto ampi e quindi vanno alle famiglie più numerose, generalmente non italiane), il tema è comunque quello della necessità di un ripensamento delle politiche abitative, di una revisione del patrimonio immobiliare, di un progetto che tenga conto anche delle preziose esperienze del cosiddetto terzo settore. Insomma, la formula magica è una: tornare alla politica, quella con la P maiuscola. E chissà che questa brutta emergenza che si sta vivendo non ci convinca, finalmente, a farlo.

di Marco Bellizi