Lettere dal direttore

Il tempo giusto

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09 marzo 2020

Ho incontrato un amico che qualche giorno fa è andato a vedere la mostra di Raffaello per i 500 anni dalla sua morte e mi ha detto che è stata una bellissima esperienza, perché i visitatori, divisi in gruppi ristretti, hanno potuto godere dei tempi e degli spazi “giusti”, più lenti i primi e più dilatati i secondi, per apprezzare l’arte del sommo pittore urbinate e ha concluso: «ho visto una mostra così come doveva essere anche prima». 

Quel “prima”, evidentemente collegato all’epidemia, mi ha fatto riflettere: perché com’era “prima”? Cioè fino a qualche giorno fa, come funzionava la visita ad una mostra, ad un museo? Funzionare è il temine appropriato, cioè tutto doveva “funzionare” in termini di risultati, di numeri: si doveva raggiungere il massimo successo che era stabilito dalla quantità dei biglietti venduti, degli accessi, del numero dei visitatori. Un po’ come sulla rete: il numero delle visualizzazioni è il criterio dominante. Tutto questo rischiava di portare non al godimento ma al consumo. La “fruizione” dell’opera d’arte era imparentata con lo “sfruttamento” più che col godimento e con la fruttuosità dell’esperienza che rischiava di rimanere superficiale a causa della massificazione a cui era improntata.

Ha ragione il mio amico: è una questione di tempo e di spazio, di tempi e spazi “giusti”. L’uomo, la sua vita, sono strettamente collegati alla questione del tempo e dello spazio, da qui la domanda: e se questa sciagura dell’epidemia fosse un’occasione per ripensare non solo a come godere della bellezza e dell’arte ma anche alla vita nella sua complessità, a come stare, da esseri pienamente umani, al mondo?

Papa Francesco di recente ha spesso invitato la società occidentale a “rallentare”, anche a fermarsi, ad avere uno sguardo sul mondo e sugli altri più “poetico”, cioè contemplativo, libero e gratuito. Parlare quindi di Raffaello e di come godere della bellezza artistica non è qualcosa di superfluo in questi drammatici tempi di epidemia globale, ma è invece andare all’essenziale, equivale a porci la domanda su come si vive, nel tempo e nel mondo, l’avventura dell’esistenza umana. Ricordandoci magari quello che Romano Guardini affermava essere caratteristica propria dell’opera d’arte: che non ha uno scopo ma un senso. Così è per la vita: se la riduciamo al perseguimento di uno scopo rischiamo di perderne tutto il senso e così anche tutto il godimento. Il Vangelo ce lo ricorda: bisogna avere il coraggio di rinnegare se stessi, di perdere la propria vita. È la logica paradossale del dono e dell’amore per cui dare non vuol dire perdere ma anzi vivere pienamente e rimanere fedeli alla propria chiamata, significa infine vivere un’esistenza in cui la nostra gioia sia piena e il nostro frutto rimanga.

A. M.