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Lettere dal direttore

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25 novembre 2019

Non è ancora terminato il viaggio del Papa in Giappone che già riaffiorano molti temi e diversi spunti che la visita in Thailandia appena conclusa ha seminato. Anche perchè le questioni si intrecciano e le esperienze di missione, con le dovute differenze, si rinviano reciprocamente come nel caso della tematica affrontata dal Papa nel discorso del 22 novembre ai vescovi della Thailandia radunati nel santuario del Beato Nicolas Bunkerd Kitbamrung vicino Bangkok.

Bergoglio, riflettendo sull'ispirazione che ha mosso quel beato e tanti santi e missionari prima di lui, ha osservato che: «L’impulso dello Spirito Santo ha sostenuto e motivato gli Apostoli e tanti missionari a non scartare alcuna terra, popolo, cultura o situazione. Non hanno cercato un terreno con garanzie di successo; al contrario, la loro “garanzia” consisteva nella certezza che nessuna persona e cultura fosse a priori incapace di ricevere il seme di vita, di felicità e specialmente dell’amicizia che il Signore desidera donarle».

Questa riflessione ricorda molto da vicino i romanzi dello scrittore cattolico giapponese Sushaku Endo (e chissà se tra le letture di Bergoglio non ci siano questi libri che vedono protagonisti i missionari gesuiti del XVI e XVII secolo in terra nipponica) e in particolare i suoi due capolavori, Silenzio e Il samurai, in cui ritroviamo proprio l'obiezione frontale alla tesi esposta dal Papa. Per bocca dell'inquietante e mellifluo inquisitore-persecutore Inoue i gesuiti che arrivano a Kyoto si sentono dire che il cristianesimo non attecchirà mai in quella terra, perchè il Giappone è una «palude» in cui tutto avvizzisce: «Quanto all'albero del cristianesimo, in un paese straniero le sue foglie possono crescere fitte e i boccioli possono fiorire, mentre in Giappone le foglie diventano secche e non spunta alcun bocciolo», insomma è un “terreno con nessuna garanzia di successo”.

Drammatica, soprattutto in quei secoli, è stata l'avventura del cristianesimo in Giappone ma alla fine il seme ha resistito, proprio perchè è “morto” (spesso tra atroci persecuzioni) tante e tante volte. Ha resistito perchè si è risposto al tentativo (esteriore, della polizia giapponese) e alla tentazione (interiore) dello scoraggiamento con quello spirito ben descritto dal Papa nel suo discorso in Thailandia: «[I missionari] Non hanno aspettato che una cultura fosse affine o si sintonizzasse facilmente con il Vangelo; al contrario, si sono tuffati in quelle realtà nuove, convinti della bellezza di cui erano portatori. Ogni vita vale agli occhi del Maestro. Erano audaci, coraggiosi, perché sapevano prima di tutto che il Vangelo è un dono da seminare in tutti e per tutti, da spargere tra tutti: dottori della legge, peccatori, pubblicani, prostitute, tutti i peccatori di ieri come di oggi». E' quello che sta facendo con le parole e con i gesti Papa Francesco, convinto che non c'è “palude” che non possa essere bonificata se la forza che spinge il missionario non è autocentrata ma fondata sulla fiducia nella potenza dello Spirito; tutt'al più al missionario è richiesto uno sguardo e un fiuto raffinato, come precisa concludendo il suo discorso il Papa, pastore della chiesa universale: «Mi piace evidenziare che la missione, prima che le attività da realizzare o progetti da porre in atto, richiede uno sguardo e un “fiuto” da educare; richiede una preoccupazione paterna e materna, perché la pecora si perde quando il pastore la dà per persa, mai prima», e questo vale in Thailandia, come in Giappone, come a Roma e in Occidente, in tutte le apparenti paludi che si presentano come ardua sfida, ieri e oggi, davanti allo sguardo e al cuore del missionario.

A.M.