Cinquant’anni fa l’uomo sulla Luna

Pallida luce dei nostri sogni

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19 luglio 2019

«Qui, parla a voi astronauti, dalla sua specola di Castel Gandolfo, vicino a Roma, il Papa Paolo VI. Onore, saluto e benedizione a voi, conquistatori della Luna, pallida luce delle nostre notti e dei nostri sogni! Portate ad essa, con la vostra viva presenza, la voce dello spirito, l’inno a Dio, nostro Creatore e nostro Padre. Noi siamo a voi vicini con i nostri voti e con le nostre preghiere. Vi saluta con tutta la Chiesa cattolica il Papa Paolo VI».

Era una domenica sera, 20 luglio 1969, quando san Paolo VI rivolse queste parole agli astronauti dell’Apollo 11. Una televisione era stata sistemata nella cupola del telescopio vaticano Schmidt, la più nuova e la più grande delle quattro cupole del telescopio gestito dall’Osservatorio nei giardini pontifici estivi di Castel Gandolfo; per il Papa fu un breve tragitto dalla sua residenza estiva nel Palazzo pontificio. Da lì, diede un’occhiata alla Luna attraverso uno dei telescopi della Specola e poi, alle 22.17 ora di Roma, vide gli astronauti atterrare e sentì la famosa frase: «L’Aquila è atterrata». Dopodiché si unì agli altri leader del mondo parlando agli astronauti sulla Luna.

Uno degli attuali membri della Specola era presente a quell’evento di cinquant’anni fa. Il gesuita Chris Corbally, che allora aveva 23 anni e non era ancora membro titolare del personale della Specola; stava trascorrendo lì l’estate mentre lavorava per la sua laurea in astronomia.

«Lo ricordo distintamente», dice padre Corbally, che ora studia spettroscopia stellare con il telescopio vaticano di avanzata tecnologia in Arizona. «Ero nei giardini di Castel Gandolfo, in piedi sulla terrazza tra le cupole dell’Osservatorio Vaticano Schmidt e i telescopi Carte du Ciel, circondato dai tecnici televisivi della Rai, e guardavo un monitor con un collegamento speciale dagli Usa che aveva appena trasmesso l’atterraggio del modulo lunare dell’Apollo 11. Nella cupola Schmidt c’era Papa Paolo VI che guardava la stessa trasmissione dell’atterraggio e salutava gli astronauti. Era assistito da monsignor Benelli (allora Sostituto della Segreteria di Stato) e dal direttore dell’Osservatorio vaticano padre Daniel O’Connell. Che momento!».

Oltre a salutare gli astronauti in inglese, san Paolo VI lesse anche una benedizione in italiano per la missione, ricordando le celebrazioni mondiali ispirate dall’atterraggio sulla Luna e auspicando onori speciali a tutti coloro che avevano reso possibile l’allunaggio. Poi il Papa salutò le altre persone presenti nelle cupole del telescopio.

«Il Papa venne sulla terrazza per ringraziare l’equipe televisiva per aver reso possibile la trasmissione terra-luna». Padre Corbally ricorda: «tutti i presenti erano in fila per stringere la mano al Papa e ricevere una medaglia di ringraziamento. Naturalmente io mi sono unito alla fila e sono stato puntualmente presentato al Papa da padre O’Connell. Questi gli ha spiegato che ero un gesuita britannico, che studiavo fisica alla Bristol University ed ero interessato a far parte dello staff dell’Osservatorio. Può immaginare che ho custodito come un tesoro la medaglia che ricevetti in quell’occasione» (ne affidò la custodia ai genitori).

Da quella sera di cinquant’anni fa, la nostra comprensione della Luna e anche lo stesso Osservatorio vaticano sono notevolmente cambiati. Il palazzo estivo del Papa è ora un museo, aperto al pubblico. Il telescopio Schmidt è stato chiuso nel 1982, vittima del sempre più grave inquinamento luminoso che rendeva impossibili osservazioni astronomiche rigorose. Ma l’edificio che lo ospitava è diventato un centro per visitatori, con quello vicino, il telescopio Carte du Ciel del 1891, ora completamente restaurato e funzionale per osservazioni occasionali del cielo notturno.

Lo stesso quartier generale della Specola nel 2009 ha lasciato il Palazzo pontificio; la nostra nuova sede, in fondo ai giardini, ora ospita un laboratorio dove vengono studiati sia i meteoriti sia i campioni lunari. Il gesuita Robert Macke, curatore della collezione di meteoriti, si è recato spesso al Johnson Space Center di Houston per esaminare i campioni dell’Apollo 11 conservati lì, includendo rocce portate dagli astronauti. E altri astronomi vaticani, come padre Corbally, ora lavorano con un moderno telescopio in Arizona.

Allo stesso modo, al passato appartiene anche la “corsa spaziale” dell’era della guerra fredda. Oggi gli astronauti di molte nazioni, includendo gli Stati Uniti, si recano in Russia per raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale. Circa venti nazioni e società private sono in grado di lanciare satelliti nell’orbita terrestre. Il Giappone, la Cina e l’India hanno lanciato sonde lunari; girano voci che la Cina stia preparando per un futuro non lontano una missione con equipaggio diretta alla Luna.

Ma, sebbene la politica e l’economia dell’esplorazione spaziale si siano evolute, la motivazione di fondo per cui noi uomini vogliamo andare sulla Luna rimane fondamentalmente la stessa.

Quando il Presidente Kennedy propose per la prima volta il programma Apollo nel 1961, lo inserì nel quadro di altre imprese umane come scalare le montagne più alte o attraversare i mari più vasti, e disse le famose parole: «Abbiamo deciso di andare sulla Luna. Abbiamo deciso di andare sulla Luna in questo decennio e di impegnarci anche in altre imprese; non perché sono semplici, ma perché sono ardite, perché questo obiettivo ci permetterà di organizzare e di mettere alla prova il meglio delle nostre energie e delle nostre capacità, perché accettiamo di buon grado questa sfida, non abbiamo intenzione di rimandarla».

La missione lunare è un riflesso di tutte queste avventure, siano esse imprese d’ingegneria o di scienza, di arte o di sport. Queste cose non mettono cibo sulle nostre tavole, non ci tengono caldi né ci nutrono bene; piuttosto, sono conquiste specificatamente umane che ci nutrono oltre le nostre pance. Simili attività sono di fatto essenziali per noi esseri umani come creature animali, ma tuttavia più che animali. Come la Scrittura ci ricorda, non si vive di solo pane. Le missioni Apollo sono state cibo per le nostre anime.

Un parametro del successo dell’Apollo 11 è il progresso che produsse nella comprensione scientifica del nostro sistema solare. Prima dell’Apollo, sapevamo che alcune parti della Luna avevano più crateri di altre; ma i campioni dell’Apollo ci hanno consentito di datare esattamente quando quei crateri si sono formati e come il loro tasso di formazione sia cambiato nel tempo. Il che si è rivelato un indizio importante per l’evoluzione del sistema solare. Sapevamo che le regioni di “mare” erano scure e piatte; ora conosciamo l’età e la chimica delle rocce dei mari e possiamo identificarle come mari ghiacciati di lava. Sapevamo che la superficie della Luna era priva di aria e secca, molto diversa da quella terrestre; i campioni dell’Apollo ci hanno sorpreso mostrandoci come, in altri modi importanti, la Luna sia di fatto strettamente legata alla Terra, e come questi due corpi devono aver avuto un’origine comune.

Le rocce non sono gli unici campioni dello spazio conservati nei nostri laboratori. Meteoriti, come quelli studiati da padre Macke nell’Osservatorio vaticano, arrivano costantemente sulla Terra dallo spazio e forniscono importanti indicazioni sulle condizioni che esistevano nel sistema solare quando si formò, circa 4,6 miliardi di anni fa. Ma solo per le rocce dell’Apollo sappiamo esattamente da dove provengono: da quale pianeta, da quel contesto geologico.

Inoltre i meteoriti arrivano nei nostri laboratori solo dopo essere stati espulsi dal corpo a cui appartenevano, ovunque esso sia, e solo dopo essersi ulteriormente sgretolati nella caduta attraverso la nostra atmosfera, aver colpito la superficie terrestre e aver iniziato a reagire con l’aria e l’acqua della Terra. Le rocce dell’Apollo sono state raccolte senza aver subito un simile trauma. E sono state conservate fin dal loro arrivo sulla terra in un ambiente accuratamente controllato. Di fatto, quest’anno un certo numero di campioni mai studiati prima è stato rilasciato dagli archivi dell’Apollo per essere esaminato con attrezzature e tecniche sconosciute cinquant’anni fa... per rispondere a domande che all’epoca non sapevamo neppure di dover fare.

Ma l’impresa dello sbarco sulla Luna va al di là della scienza. Andando sulla Luna abbiamo potuto guardare dietro noi stessi con una nuova prospettiva. Di fatto, le immagini più importanti provenienti dalle missioni lunari sono state le fotografie della Terra, vista per una volta come un piccolo marmo con una sottile atmosfera azzurra dove la vita, includendo la vita umana, deve sopravvivere. Quelle immagini ci hanno mostrato un mondo fragile, ma anche un mondo senza confini.

Gli allunaggi sono diventati una metafora di quello che gli uomini possono raggiungere quando dedicano le menti e gli sforzi a un obiettivo, e un rimprovero per tutti gli altri problemi che restano irrisolti. Come dice la lamentela comune: «se possiamo andare sulla Luna, perché non possiamo...» riparare le buche, controllare il clima, curare il comune raffreddore. Ma al di là di questi sentimenti, c’è un senso di speranza. Quando Kennedy propose di andare sulla Luna, nessun americano era mai stato ancora in orbita attorno alla Terra; era meno di quattro anni dopo il primo satellite, e persino gli aerei supersonici avevano poco meno di quindici anni. Ma con la volontà politica l’impossibile fu realizzato. Perciò non dobbiamo rinunciare a risolvere i problemi “impossibili” di oggi, siano essi la povertà o il cambiamento climatico... più posticipiamo la loro soluzione, più alti saranno i costi e gli sforzi richiesti.

Per le persone di fede, comunque, c’è una lezione in più da imparare. Tre giorni dopo lo sbarco sulla Luna, san Paolo VI, durante l’udienza generale del mercoledì, parlò del significato di quella missione. Citò il famoso detto delle Confessioni di sant’Agostino: «Tu, (o Signore), ci hai fatti per Te ed è inquieto il nostro cuore, finché non si riposi in Te». A spingerci ad andare sulla Luna è stata, in ultima analisi, l’irrequietezza che ci fa cercare Dio. Ma poi Paolo VI ha citato anche il salmo 138, ricordandoci che dovunque andiamo, anche ai confini della Terra e al di là di essi, troviamo il volto di Dio. Più grande è il campo d’azione dell’attività umana, più si rivela il campo di azione di Dio. Più impariamo sulla creazione, più apprezziamo la grandezza del suo Creatore.

Come Paolo VI ha detto agli astronauti dell’Apollo 11, la luna è «una pallida luce delle nostre notti e dei nostri sogni». I nostri sogni hanno motivato le missioni lunari. E ancora oggi, cinquant’anni dopo, l’Apollo 11 continua ad accendere la nostra irrequieta immaginazione.

di Guy Consolmagno
Gesuita direttore della Specola vaticana