Vogliamo davvero ascoltare
Un prima e un dopo. Il prima è quello conosciuto, felice: una ragazzina curiosa cresciuta in campagna, innamorata della danza, che diventa una giovane donna con un compagno e una figlia piccola. Un dopo ignoto: minaccioso, oscuro, tutto da affrontare. In mezzo, l’incidente d’auto che ha reso la giovane donna paraplegica. «Presto ho scoperto di essere morta», scrive Alessandra Sarchi, iniziando il suo racconto La notte ha la mia voce (Torino, Einaudi, 2017, pagine 170, euro 16,50). «Siccome però mi toccava continuare a vivere, ho tirato avanti. Credo che capiti a molti, se non a tutti, e i più fanno come me: tirano avanti, e senza cedere alla tentazione di voltarsi indietro. Tentazione che prima o poi arriva».

È tagliente la prosa di questa donna, qui al terzo
romanzo: sembra non aver paura di guardare dritto negli occhi lo sguardo degli
altri. «Com’era singolare la condizione in cui mi trovavo: ad avere paura e
nostalgia di me stessa. A volte la nostalgia la vedevo negli occhi di chi mi
aveva conosciuto prima, come se nell’iride potesse affiorare il contorno di una
figura precedente cucita nella memoria». È una sorta di sfida lanciata al
lettore: sei davvero pronto ad ascoltare la mia storia? Perché se siamo sempre
prontissimi a incoraggiare l’altro a parlare, pochi sono poi davvero in grado di
farsi carico di quel racconto. E delle sue conseguenze.
Il dolore è enorme.
Inarginabile. Paralizza cuore e cervello, forse ancor più delle membra
improvvisamente colpite. Si vorrebbe affrontarlo tutto da soli, per sentirsi,
almeno, ancora liberi. Nei primi tempi a casa, uscita dalla clinica, la
tentazione di farla finita ritorna più volte. «Ma c’erano una bambina e un
compagno a frenarmi. L’attenzione con cui la bambina osservava le mie manovre,
memorizzandole e riproducendole appena la sedia a rotelle era libera, perché io
stavo momentaneamente su un divano o su un letto, e quindi poteva impadronirsene
come di un nuovo gioco, mi obbligava a esserci, ora e negli anni che sarebbero
venuti. Ed era un obbligo dolce, per quanto faticoso, se lei non disprezzava la
sedia a rotelle ma la faceva sua, come potevo disprezzarla io?».
Insieme alla
bambina, presenz
a fortissima seppure appena accennata (con meravigliosa
delicatezza), l’incontro per caso con la Donnagatto, talmente determinata,
tagliente e sicura che se pure le mancavano un piede e un polpaccio, «lei, nella
mia testa, camminava». Cercare di capire l’altro («Non mi decidevo su chi fosse
davvero la Donnagatto, una donna intelligente e vitale fuori misura o una
bugiarda inafferrabile»), diventa il modo per cercare di capire se stessi.
Al
suo racconto, Sarchi aggiunge una preziosa postilla. Ottobre del 2009: la donna
si trova per lavoro negli Stati Uniti quando il governo federale dirama le linee
guida per arginare l’influenza HiNi, partita da alcuni allevamenti di maiali in
Messico. «Vidi la mia amica americana, Janice, leggere e infastidirsi, poi
cercare di evitare che il foglio arrivasse tra le mie mani, ma qualcuno altro
meno attento, o meno sensibile (…) me lo aveva già passato». Le scorte di
vaccini sono scarse, pertanto vi sono categorie a cui gli ospedali non devono
somministrarli — anziani, dializzati, malati terminali, persone con disabilità
fisica e psichica. Sembra un macabro scherzo, ma non lo è. «La disabilità è un
lusso consentito solo a chi vive in una società opulenta e sana, pensai. Mi
sentii di nuovo nella melma primordiale, la lotta per la sopravvivenza in cui il
branco protegge i più forti (…). È la legge animale. Eppure non avevamo fatto di
tutto per allontanarcene?».
Ma la legge animale non regge solo la medicina
moderna (lo stesso discorso vale infatti per ogni ambito in cui vi sia scarsità
di risorse) ma scorre purtroppo anche in parte della Chiesa. Se l’atea Sarchi si
domanda «non era stata stabilita, alla fine dell’antichità, all’inizio della
nostra era, una nuova legge che diceva che gli ultimi dovevano essere protetti,
amati, sostenuti?», questa nuova legge fatica davvero a trovare spazio nella
quotidianità delle nostre parrocchie.
Da un lato infatti la Chiesa cattolica
condanna con forza (anche) l’aborto terapeutico, stigmatizzando le donne che vi
ricorrono, dall’altro, però, quando la persona con disabilità viene al mondo,
non si fa poi molto per aiutarla, o per aiutare la sua famiglia. Le persone con
disabilità vengono troppe volte lasciate al loro destino: gli asili e le scuole
gestiti da religiose e religiosi, ad esempio, difficilmente le accolgono, mentre
tanti parroci fingono di non vederle. Quante sono state le messe durante le
quali ci hanno invitato a uscire perché la disabilità dava fastidio, era
rumorosa, perché pretendeva di pregare con i gesti ritmati dell’autismo, con le
canzoni fuori tempo di chi invoca Dio stonando un po’, con le gambe incrociate
seduti in terra, in adorazione troppo vicini all’altare? Quante sono state le
messe a cui ci hanno suggerito di non partecipare — «Non a quella delle 12, c’è
tutta la parrocchia, troppa confusione per voi e poi i bambini normali
potrebbero impressionarsi» — quanti i pellegrinaggi parrocchiali durante i quali
siamo stati lasciati indietro. Non è certo un caso che dal rifiuto a partecipare
opposto a una coppia con due figli con disabilità sia nato il movimento
internazionale di Fede e Luce.
Sarchi denuncia la società, ma le sue parole —
precise come un bisturi, limpide come una poesia di dolore che diventa, a tratti
(suo malgrado?) ringraziamento — sferzano tutti. Anche se lei, la protagonista
del libro, se ne addossa umilmente la colpa. «Chiedo agli altri di saper vedere
oltre la carrozzina su cui siedo, oltre la difficoltà che mi fa sbuffare quando
sobbalzo su una strada sconnessa, o vengo ignorata perché davanti a una cassa
sono tutti più alti di me, ma in verità covo i miei mali come una tela di
ragno».
di Giulia Galeotti
Piazza S. Pietro
07 dicembre 2019

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