In Russia non ci andò mai, eppure Tommaso Landolfi continua a rappresentare un passaggio obbligato per comprendere in profondità la letteratura di quel Paese e il respiro epico dei suoi autori più grandi. Può sembrare un paradosso, ma del resto il pensiero stesso dello scrittore, poeta e traduttore ha sempre avuto un effetto spiazzante, volto ad asserire verità per poi minarle e smentirle. Non amo viaggiare e in Russia poi «fa tanto freddo» soleva dire, aggiungendo che gli scrittori di quella terra tendono al pessimismo anche a causa del clima ostile: ma sono quegli stessi scrittori di cui divorò le opere, fino a rivelarne — attraverso lo scavo di riletture — le sfumature più recondite. Non a caso diceva di lui Italo Calvino: «Il rapporto di Landolfi con la letteratura come con l’esistenza è sempre duplice: è il gesto di chi impegna tutto se stesso in ciò che fa e nello stesso tempo il gesto di chi butta via». Un’osservazione che trova riscontro nell’opera di Landolfi I russi, riedito, a cura di Giovanni Maccari (Milano, Adelphi, 2015, pagine 365, euro 30) in cui sembra parlare obtorto collo di Puskin, Gogol, Dostoevsky, Tolstoj, Pasternak perché rappresentanti di un mondo «estraneo» e «lontano», per poi entrare in simbiosi con assunti e intuizioni tratti dalle loro opere, fino a diventarne divulgatore e paladino.
E in questa
particolare dimensione di critica letteraria si specchia il disincantato
atteggiamento di Landolfi quando era studente, nel 1928, all’università di
Firenze: dai corsi ufficiali preferiva «tenersi a distanza» per dedicarsi con
slancio all’occupazione preferita, ovvero discettare di letteratura, per notti
intere, con gli amici Carlo Bo, Leone Traverso e Renato Poggioli. «Questa era la
mia vera università» ebbe a dire anni dopo. E la sua insofferenza per
l’ufficialità e il protocollo, sentiti come una pastoia che impediva di sondare
i recessi dell’autore nell’atto di recensirlo, si traduce in un’illuminante e
spregiudicata analisi di pensieri e sentimenti. E dell'autore di Guerra e pace
scrive in un linguaggio tra il disinvolto e il canzonatorio, e comunque in
contrasto pure con i detrattori dello scrittore, di solito paludati anche nel
formulare le loro riserve.
«Vecchio Tolstoy che è così difficile amare —
chiosa Landolfi —. La grazia non è il suo forte: pure, alcune pagine dei suoi
romanzi? Quando dice una cosa intelligente, sorprende sempre un poco: eppure ne
dice tante; lo si direbbe grosso, sebbene genio, ma talvolta invece è finissimo;
sembra scaltro, e non lo è per nulla; sempliciotto, e proprio in quel punto
scopri che la sa più lunga di quasi tutti». E la forza di questo giudizio è da
leggere in filigrana: più Landolfi sembra irriverente, più tradisce ammirazione
e attrazione. Suggestiva poi è la sua lettura delle creature di Puskin, definite
di ispirazione byroniana: romantiche ma anche classiche, non in divenire (come
pensano i critici alla moda) ma già arrivate, chi bene e chi male. E con tono
provocatorio tende a sfatare «falsi miti». Non è vero che all’autore di Evgenij
Onegin piaceva solo l’autunno, che spesso ricorre nella sua opera per esprimere
malinconia e languore: anche la primavera — con i suoi palpiti e i suoi ardori —
riveste, secondo Landolfi, un ruolo prioritario. E nell’affermare ciò si fa
beffe degli esponenti «parrucconi» della stereotipata critica letteraria che lo
aveva preceduto. Colpisce quindi l’austerità, dal momento che si definiva un
bohémien della penna e del pensiero, con cui si accosta all’opera di Gogol, di
cui rivendica, sulla base anche di citazioni dello stesso autore, la profonda
religiosità. «Cercate di vedere in me il cristiano e l'uomo piuttosto che il
letterato» scrisse una volta Gogol alla madre. E Landolfi, nel suo saggio, pone
un forte accento su questa esortazione: «Siate non morte, ma vive anime. Non c'è
altra salvezza fuori di quella indicata da Gesù Cristo». Ma anche in questo caso
egli non resta in superficie. E nell’agitare le placide acque di una supina e
conformista critica letteraria, sottolinea il peso della crisi morale di uno
scrittore alla disperata ricerca del perché della vita: un interrogativo che
turba e sconvolge i già scricchiolanti equilibri del mondo terreno. E quel vuoto
determinato dall’assenza di adeguate risposte si traduce, sul piano narrativo,
nella corrosiva rappresentazione di quelle figure grottesche e patetiche che
popolano Le anime morte, un romanzo di coraggiosa denuncia sociale e tappa
fondamentale della letteratura russa.
di Gabriele Nicolò
Piazza S. Pietro
13 dicembre 2019

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