Dal sogno di un luogo dove celebrare «la storia, l’importanza, la ricchezza, la bellezza» della nostra lingua nasce il più recente libro di Giuseppe Antonelli, Il Museo della lingua italiana (Milano, Mondadori, 2018, pagine 366, euro 33). Un remoto sogno che «potrebbe non avverarsi mai». E allora lasciando spazio all’immaginazione l’autore inventa un museo in forma di libro. Che sia di carta non lo rende fragile come i castelli di sabbia costruiti in riva al mare dai bambini. Magia delle parole se appare solido come fosse in muratura, una casa pronta a offrire ospitalità alla lingua.
Questo
edificio ideale si sviluppa su tre piani, corrispondenti a tre grandi sezioni
cronologiche — l’italiano antico, il moderno, il contemporaneo — e si articola
in quindici sale che coincidono con altrettanti temi. Progettando questo spazio
da riempire di parole, Antonelli reinventa anche il modo di guardare
complessivamente alla nostra lingua a partire da una nuova periodizzazione che
sostituisce la tradizionale e ormai logora, quella dei manuali scolastici per
intenderci: l’antico va dalle origini alla metà del Settecento; il moderno
arriva alla seconda guerra mondiale passando per quel fondamentale 1861 che vede
l’Italia diventare una; il contemporaneo dal secondo dopoguerra a oggi. Una
manciata di anni a confronto dei secoli delle due precedenti sezioni, uno
sbilanciamento che non nasce da disaffezione per il passato, ma dall’esigenza di
«storicizzare il presente».
La narrazione ha inizio con le prime
testimonianze in volgare, tocca i grandi autori — dalle «tre corone» Dante,
Petrarca e Boccaccio — e i grandi temi della letteratura (i modelli, le regole,
i prestiti dalle lingue straniere, l’italiano in Europa e nel mondo) per poi
addentrarsi nell’italiano che prende vita «al di fuori dei libri e della
letteratura». Dalla lingua dei mercanti quattrocenteschi a quella dei nuovissimi
mezzi di comunicazione (computer, rete, social network) passando, senza
dimenticare i dialetti, per la lingua delle istituzioni, della politica, dello
sport e così via.
Un lungo appassionante viaggio attraverso i secoli dove —
ed è anche qui lo sguardo nuovo dell’autore — le parole della cultura convivono
con le parole della vita, come conferma la scelta di porre a corredo delle
diverse sezioni sessanta oggetti definiti, con una bella immagine, «ancore della
memoria e trampolini della fantasia». Accanto a manoscritti e libri c’è spazio
infatti per la cultura materiale rappresentata da oggetti dal forte valore
simbolico che hanno segnato un’epoca: una matita rossa e blu, una radio, un
telefono, un disco, un pallone, i fotogrammi di un film, i personaggi di
Carosello. Scelte tutte molto felici e in qualche caso anche raffinatamente
evocative, come i dipinti di Demetrio Cosola e Angelo Morbelli che introducono
rispettivamente al mondo della scuola e alla civiltà epistolare, due grandi
pittori della vita quotidiana di fine Ottocento oggi ingenerosamente trascurati,
o il baule degli emigranti con quei poveri oggetti che dovevano fare casa
ovunque.
Del resto alla lingua e alla vita delle persone comuni, «quelle che
la storia non la fanno, la subiscono», l’autore dedica pagine tra le più belle,
come agli emigranti e ai soldati della prima guerra mondiale che si accostarono
all’italiano scritto per riempire l’assenza, facendo di un foglio di carta il
legame con i sentimenti.
E ancora le immagini che aprono e chiudono questa
galleria della memoria: i ciclomotori che nel nome riproponevano due tra le
parole più usate della nostra lingua. Era il 1967 quando i due semigusci del
Ciao furono il sogno di libertà di tanti adolescenti, mentre dieci anni più
tardi il Sì diventava l’oggetto del desiderio di altri adolescenti per quella
sella più lunga dove salire in due non era più un’impresa.
Il museo
ideale di Antonelli all’apparenza ripropone un sogno ricorrente degli uomini: un
luogo capace di contenere il sapere umano. Una struttura intesa non come inerte
contenitore, ma come una possibilità di memoria e dunque, come osservava lo
storico della filosofia Paolo Rossi, «una chiave universale di accesso alla
realtà». Un sogno pensato nel tempo in tante forme diverse: l’architettura del
teatro della memoria ideato da Giulio Camillo Delminio nel Cinquecento,
l’Enciclopedia degli illuministi, la biblioteca di Babele dalla modularità
esagonale e dallo sviluppo verticale inventata da Borges, l’immenso palazzo
enciclopedico dell’esule antifascista Marino Auriti, solo per fare qualche
esempio. Rispetto alla complessità di chi lo ha preceduto, Antonelli propone una
struttura essenziale che non pesa sul lettore e non lo condiziona. Ed è proprio
questa semplicità a fare la differenza.
Il museo della lingua italiana non
è un luogo chiuso, ma uno straordinario universo narrativo nel quale il dentro e
il fuori armoniosamente convivono. Come se non ci fosse un soffitto a coprirlo
ma solo un cielo di azzurra profondità da dove le parole entrano per aggiungersi
festosamente alle altre. Insomma non c’è polvere del tempo né la solitudine
raggelante che a volte è la sola a occupare gli spazi di un museo, ma un’aria
piena di tanta vita che spinge passato e presente verso i lettori.
In questo
lungo viaggio, parola dopo parola, Antonelli riesce a non scivolare mai in
territori inospitali, mantenendo così fede al proposito di «appassionare alla
storia della lingua italiana un pubblico di lettori non specialisti». Numerosi
accorgimenti — e i dettagli sono sostanza — rendono più facile attraversare
queste pagine: i riquadri sono finestre che offrono utili approfondimenti; le
frecce indicano percorsi alternativi a quelli cronologici; ogni capitolo propone
un solo suggerimento di lettura che unito agli altri forma un ideale scaffale di
libri. Un criterio di contenimento che evita quei lunghi elenchi di titoli
destinati a precipitare come una valanga minacciosa sul lettore non specialista.
L’autore racconta la civiltà italiana attraverso la lingua e lo fa con una
narrazione di grande fascino, intensità e coerenza, frutto dei suoi molti
talenti: la chiarezza e la capacità di sintesi del docente, l’«amoroso uso di
sapienza», per usare un’espressione dantesca, del linguista innamorato del suo
mestiere, il passo avvincente e coinvolgente del narratore. A libro concluso
resta al lettore non solo una straordinaria ricchezza di contenuti, ma un
rassicurante sentimento di fiducia. Nonostante le porte, i muri, gli steccati
che nei momenti più sciagurati della storia possono facilmente trasformarsi in
fili spinati, la lingua corre sempre verso il futuro, resta accogliente,
inclusiva, pronta al dialogo e dunque profondamente umana. Perché le parole non
finiscono mai di dire quello che hanno da dire.
Un libro che si pone
nella scia del magistero di Luca Serianni, lo studioso della lingua
italiana al quale è dedicato.
di Francesca Romana de' Angelis
Piazza S. Pietro
14 dicembre 2019

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