«Here we go! May God watch over us!» è il ritornello che tradizionalmente i pescatori recitano calando al tramonto le loro piccole navi di legno nel lago Kivu. Da qualche tempo però alle voci maschili, se ne sono aggiunte di femminili. Nel bellissimo reportage uscito qualche settimana fa sul «New York Times», infatti, Shannon Sims ha raccontato la battaglia (vinta) delle donne ruandesi, che rappresentano il 70 per cento della popolazione in un paese decimato dal genocidio, per poter accedere a un ambito finora ritenuto solo maschile. Quello della pesca. «Sono stanchissima dopo una notte al largo» ha raccontato la trentaduenne Zawadi Karikumutina. «Ma ora — le fa eco Bonifrida Mukabideri — una donna può dire: Posso costruirmi una casa. Posso occuparmi della mia famiglia. E anche se mio marito dovesse morire, saremmo in grado di vivere una vita migliore». Ovviamente difficoltà e pericoli non mancano; per questo le pescatrici si sono raggruppate in cooperative che le aiutano in tutto, dalla cura dei figli alla sicurezza durante i turni, fino alla vendita della merce. Il lago Kivu, del resto, non è solo uno dei grandi laghi africani. È diventato il drammatico simbolo del genocidio ruandese da quando le sue acque furono invase dai corpi delle vittime dell’odio.
Piazza S. Pietro
11 dicembre 2019

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