Affette da problemi psichiatrici, Beatrice e Donatella (Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti) risiedono presso una comunità terapeutica anche perché ritenute socialmente pericolose. La prima, effervescente e arrogante, ha avuto atteggiamenti persecutori nei confronti di un suo ex, la seconda, chiusa e fragile, non ha saputo comportarsi da madre responsabile. Quando casualmente riusciranno a varcare, non viste, i confini della villa che le ospita, sarà per loro l’inizio di un’insperata avventura. Ma anche di una bella amicizia e soprattutto di un viaggio a ritroso verso le cause della loro attuale condizione.
Dopo il racconto corale de Il
capitale umano (2013) e l’acuta analisi sociale di tanti altri suoi film, Paolo
Virzì restringe lo sguardo. La pazza gioia, presentato in questi giorni al
festival di Cannes, non aspira a essere un’opera sulla pazzia, ma soltanto
sull’amicizia fra due donne che attraversano questo tipo di patologia.
Affrontare il tema da un punto di vista antropologico non sarebbe stato nelle
corde del regista, magari ci si poteva aspettare da lui una maggiore attenzione
appunto all’aspetto sociale del problema. Sta di fatto che questa dimensione più
intimista, d’altronde già sperimentata in La prima cosa bella (2010), non lo
coglie affatto impreparato, e anzi gli permette di enfatizzare quella che è la
sua dote migliore e più peculiare, ovvero conciliare il sorriso con l’amarezza.
Qualità che ancora più della capacità di analisi della società lo rende l’ideale
— forse anche l’unico — erede dei maestri della commedia all’italiana. Di cui
per certi versi propone un’evoluzione.
A differenza di tanti suoi modelli,
prima di tutto, Virzì non è quasi mai indulgente o consolatorio. E qui infatti
non fa un elogio della pazzia. Mostra al contrario la patologia mentale come
qualcosa da dover sconfiggere o quanto meno attenuare il più possibile, se non
altro perché si porta dietro la solitudine e un sintomo per molti versi ancora
peggiore, l’egoismo. Non a caso, quella fra le protagoniste non è affatto
un’amicizia facile, e non solo per i loro caratteri opposti. Non è un dono, ma
una lenta e graduale conquista. Che però ha già il sapore della
guarigione.
Il film si sviluppa dunque come un road movie a metà fra Thelma e
Louise e Il sorpasso. Un po’ come nel film di Scott la coppia è in qualche modo
anche in lotta con un mondo maschile vile e meschino; come nel film di Risi,
invece, sono gli incontri familiari a gettare uno sguardo nuovo sulle
protagoniste. E qui la sceneggiatura, scritta dallo stesso regista insieme a
Francesca Archibugi, poteva forse dare di più. Non sono incontri memorabili
quelli che Donatella fa con l’ex compagno, discotecaro buzzurro, e con il padre
musicista di piano bar vestito a festa, né quello di Beatrice con l’ex marito,
ricco superficiale. Si tratta di bozzetti a loro volta discendenti dalla
tradizione della commedia all’italiana, ma che nel cinema di oggi, e in
particolare in quello così composito di Virzì, risultano abbastanza
insoddisfacenti.
di Emilio Ranzato
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