Particolarmente intensa e fuori da ogni luogo comune la recente pubblicazione di una Via Crucis (Bologna, Edizioni Dehoniane Bologna, 2018, pagine 238, euro 20) che raccoglie insieme le illustrazioni delle formelle in ceramica invetriata realizzate dal maestro Mimmo Paladino per la cappella dell’Università degli studi Milano-Bicocca e i relativi commenti di Raffaele Mantegazza. Come osserva Andrea dell’Asta nella prefazione, le «immagini dirette ed efficaci», dal «tocco rapido e veloce» in nero su sfondo oro, si presentano come «teofanie, rivelazioni». Il doloroso percorso di Gesù verso il Golgota appare guardato da un punto di vista in cui già si spalanca l’orizzonte della risurrezione. Diviene il paradigma di ogni Calvario umano che però non è abbandonato a se stesso, ma scandito all’interno dell’amore divino. La passione umana si rivela come passione di Dio, intrinseca all’atto creativo. La passione d’amore del Figlio, come passione d’amore del Padre.
Le figure,
i dettagli essenziali, arcaici, passo passo snodano il dramma che avanza
irreversibile, ma il pathos si stempera in una presenza che tutto avvolge nel
silenzio. Quiete imprevedibile. Pura innocenza che traspare da una coscienza
consapevole. Abbandono. Morta la volontà, morto l’ego. Dio in Dio. Uno e Trino.
Così la prima stazione narra la condanna a morte attraverso il massiccio
legno orizzontale della croce che grava sulla testa di una scarna figura che non
poggia su niente. Contrasto evidente tenuto in perfetto equilibrio dall’oro che
tutto sorregge in una impalpabile leggerezza. Nella seconda formella il peso che
grava assume la forma definitiva di croce i cui assi, non perfettamente
perpendicolari, indicano lo stravolgimento dell’ordine del cosmo dovuto
all’irresponsabilità dell’uomo, raffigurato da incombente mano. Squilibrio
evidenziato nelle cadute della terza, della settima, della nona formella, in cui
la croce o il braccio del legno, s’abbattono sbilanciando la figura, facendo
precipitare a terra la testa, solcando con veemenza la compattezza dell’oro in
bande che separano il sotto dal sopra.
Seguono gli struggenti profili della
madre e del figlio della quarta formella uniti nell’ultimo sguardo che s’intesse
in intreccio assumendo la forma di cuore. I bracci della croce, tornano
perpendicolari nella dodicesima e nella tredicesima stazione, dove, nei quattro
campi d’oro, accolgono le gocce di sangue sferragliate dalla ferocia dei chiodi
e i vortici neri del caos. Infine l’irrompere di una luce diamantina dal muro
nero della morte che si dischiude nel centro dell’oro a tutto campo della
quattordicesima stazione.
Allusioni, tracce, simboli. Eloquente non detto.
Oltre ogni didascalica ragione che invece cerca di dire. Icone da contemplare.
Evocano. Lasciano che il mistero si affacci, travalichi nel qui ed ora dello
spazio e del tempo. Ecco allora che invece, i commenti di Mantegazza e coautori,
cercano di dipanarsi dicendo, attualizzando il dramma, smascherando la realtà di
dolore che grava sul tempo. La croce, simbolo della creazione, dell’ordine
cosmico, subisce un totale ribaltamento, divenendo segno dell’ingiustizia
prodotta dalla storia. La croce innalzata sul Calvario manifesta agli occhi del
mondo tutta la violenza, la sopraffazione, l’oppressione, che l’umanità non
vuole vedere e che occulta a se stessa. Gesù, luce del mondo, con atto libero e
consapevole, guarda, vede, assume su di sé. Scardina tutti i poteri attraverso
un atto d’amore puro, gratuito.
Così le tappe della faticosa salita del
Calvario, una dopo l’altra mettono a nudo i paradossi, le ipocrisie, dietro cui
si nascondono i cardini dell’ingiustizia che domina il tempo e i perversi
meccanismi psichici che li sorreggono. Ad esempio, il paradosso della pena di
morte messo a fuoco nella prima stazione, rinvia a un desiderio ancestrale, a
«dimensioni molto profonde, poco razionali, difficilmente spiegabili». Evoca il
terrore di Caino per aver superato «un’invisibile barriera». Implica
contemporaneamente onnipotenza e impotenza, ossia una fuga dalla realtà.
«Eliminando l’assassino si elimina l’idea inquietante che il male sia dentro di
noi».
Il problema al contrario, è di assumersi il carico morale della colpa
in quanto colpa collettiva, riconoscendo che la potenzialità del male è presente
in ogni essere umano. Questa importante considerazione avvalora il dogma del
peccato originale come realtà di squilibrio e distorsione che investe l’intera
collettività umana ed elimina al contrario la meccanicità della legge di
retribuizione tipica della tradizione veterotestamentaria, spesso ancora
dominante. «Il marchio di Caino è l’inizio di un percorso che potrà portare al
perdono, per il quale occorrerà la conversione. Ma senza Caino non vi sarebbero
nemmeno questa e quello».
La problematica è ripresa nel commento alla ottava
stazione, in cui Gesù rimprovera le donne di Gerusalemme. Di fronte a quello che
accade di ingiusto, di violento, la domanda spesso ricorrente è: «cosa c’entro
io?». Questo giustifica la posizione di osservatori che non possono fare nulla.
Ma proprio questa risposta «fa parte delle strategie di un dominio che vuole
agire indisturbato». Di fronte alle ingiustizie che sono sotto gli occhi di
tutti non sono possibili «posizioni neutre». L’autore cerca di far emergere la
posizione di coloro che sul Golgota «restarono a guardare», come noi, oggi, di
fronte alle guerre alle quali assistiamo in diretta o all’ennesimo barcone
affondato. «L’abitudine è la vera alleata del dominio quando questo si avvale
degli spettatori per poter compiere le sue nefandezze».
Viene portata alla
ribalta la granitica legge della causa effetto come forza che domina la storia,
cercando però di puntualizzare come la conclusione non sia mai già definita in
anticipo. «La storia non è segnata dal principio, non è già scritta: cambia
verso nel momento in cui viene abitata da Dio e chiama l’uomo a essere
co-protagonista della salvezza». La concezione biblica di un Dio che agisce
nella storia, assume quindi lo straordinario significato di togliere forza alla
irriducibile e cieca meccanicità dei destini individuali e collettivi, insieme
porta in primo piano la responsabilità dell’essere umano. Di fronte alla realtà
dei lager nazisti viene naturale chiedersi come mai la maggior parte dei
cittadini tedeschi, pur sapendo, abbiano potuto tacere. Il punto che
costantemente ci riguarda e ci interpella è allora come prendere coscienza di
essere in qualche modo conniventi con le forme di un «peccato strutturale» che
avvallano gli occulti poteri dell’ingiustizia. Soffocare la verità al fine di
ratificare il dominio della violenza dà origine a un «peccato strutturale» che
investe l’intera società. Il fatto che viviamo in «strutture di peccato», non
assolve il singolo individuo dalle proprie responsabilità. «Le pratiche e le
strategie che ci permettono di non essere complici del dominio, costituiscono
l’ossatura di una pedagogia della resistenza che parte dalla consapevolezza del
piccolo nazista che si nasconde dentro ognuno di noi».
Pur di fronte a
destini che sembrano senza via d’uscita, che portano sulle spalle il peso di
errori di altri, pur nella tragedia dei «popoli crocefissi» dalla storia,
stigmatizzati come portatori di ogni sorta di male, disumanizzati e considerati
degni di rifiuto e annientamento, come lo furono gli ebrei, come ancora oggi lo
sono i rom, non rimane che la forza della «scelta morale». Cercare di
comprendere se siamo veramente posizionati dalla parte di coloro che desiderano
e operano la giustizia, accettando di smascherare, a partire da se stessi, ogni
forma di comoda connivenza e consuetudine che incatena e rende complici. Solo
l’appello alla coscienza rende giusti, permette di «comprendere il grado di
coinvolgimento apparente con il dominio», permette di «iniziare a sconfiggerlo»,
di liberarsi dalle limitazioni e dalla ciecità «che il dominio richiede ai suoi
sudditi».
Così come Simone di Cirene aiuta Gesù a portare la croce, come la
Veronica gli asciuga il volto, è necessario valorizzare gesti attraverso cui
farsi carico di parte del dolore di altri mettendo in gioco la propria vita,
offrendo quello che si ha, che si può, nel qui ed ora del tempo che ci
attraversa. «Prendere la croce di un altro sulle proprie spalle significa
entrare nella sua storia (...) inventare un finale differente». Non significa
ribaltare la realtà, eliminare l’ingiustizia, ma alleviarne almeno in parte gli
effetti, significa vivere i tempi escatologici, i tempi della trasformazione.
Questa coscienza costituisce il senso più profondo della risurrezione, implica
un costante rapporto frontale con la coscienza di morte per logorarla
dall’interno.
Come giustamente osserva Mantegazza, la risurrezione è assai
diversa dall’idea di immortalità dell’anima che domina il pensiero greco.
Vincere la morte significa riportare alla vita tutto ciò che è morto,
attraversare la morte per scioglierla. È la consumazione che opera Gesù al
termine della Via Crucis, nel tempo del silenzio che va dal venerdì all’alba
dell’ottavo giorno.
di Antonella Lumini
Piazza S. Pietro
15 dicembre 2019

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