È molto di più di un flash mob, spiegano le attiviste di Women Wage Peace, un movimento senza leader organizzato grazie al passaparola che corre sui social network. Lo dimostrano i numeri: migliaia di donne ebree, musulmane e cristiane hanno camminato insieme in Israele per la pace durante l’ultima iniziativa dell’ottobre scorso, una marcia verso Gerusalemme lunga duecento chilometri. Accanto a loro c’era anche Leymah Gbowee, Nobel per la pace nel 2011 per la promozione della riconciliazione nel suo paese, la Liberia, alla fine della guerra civile del 2003. Le manifestazioni per chiedere dialogo e concrete soluzioni per porre fine ai conflitti sono iniziate dopo lo stallo delle trattative del 2014: «Non ci fermeremo — si legge nel sito dell’organizzazione — finché non sarà raggiunto un accordo politico che porterà a noi, ai nostri figli, ai nostri nipoti un futuro sicuro».
Purtroppo il piccolo grande miracolo di Women Wage Peace è stato quasi completamente ignorato da giornali e televisioni, confermando il triste adagio per cui le buone notizie non sono notizie “buone” per i media. Nel nuovo video ufficiale del movimento la cantante israeliana Yael Deckelbaum canta la canzone Prayer of the Mothers, la preghiera delle madri, insieme a donne e madri di tutte le religioni. Nel deserto, un gruppo di donne si ritrovano insieme a cantare, ognuna secondo la sua tradizione e cultura, ma unite dal desiderio di costruire insieme una convivenza possibile. Non facile, ma possibile, come spiega — con franchezza e non senza autocritica nei suoi libri — Leymah Gbowee.
La guerra non devasta solo i corpi ma anche le anime,
scrive Leymah, raccontando come la paura e le atrocità della guerra civile in
Liberia avessero sconvolto la sua vita, trascinandola in una spirale di scelte
sbagliate. Ma non è mai troppo tardi per imprimere la giusta direzione al corso
delle cose e Leymah ne è la prova vivente: da vittima umiliata e offesa
diventerà una delle più importanti attiviste per la pace in terra africana,
guidando il Mass Action for Peace, e tessendo una preziosa rete di rapporti
utili alla riconciliazione nazionale in un paese martoriato da rappresaglie e
vendette. Con una protesta pacifica ma tenace, madri, mogli, sorelle hanno detto
no agli stupri, al rapimento di ragazzini da trasformare in bambini-soldato, al
massacro di civili inermi. Usando tutte le armi (non violente) possibili per
accelerare il processo di pace. E continuando a raccontare la sua storia in
tutto il mondo perché il suo esempio si diffonda a macchia d’olio in altri
paesi — come il Congo, ma anche come la Terra santa — dilaniati dalla guerra.
Per un cammino non solo di pace, ma di autentica riconciliazione fra vittime e
carnefici, la sfida più impegnativa per ricostruire la società civile.
«Camminiamo vestite di bianco e di turchese, fianco a fianco» si legge sul
sito di Women Wage Peace, che rilancia su Facebook l’invito a di reclutare
quante più donne possibile: «Portate le vostre amiche, sorelle, madri e figlie.
Sono benvenute anche le bambine, considerato che noi chiediamo pace e armonia
nel loro nome e per il loro futuro».
di Silvia Guidi
Piazza S. Pietro
18 febbraio 2019

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