Leggendo il libro della scrittrice francese Theresa Révay, ambientato a Istanbul tra il 1918 e il 1923, L’altra riva del Bosforo (Vicenza, Neri Pozza, 2015, pagine 362, euro 15,90), non si può fare a meno di collegarne l’affresco storico-sociale alla vicenda di una terra simbolo, quale la Turchia, da un secolo a questa parte: giusto il tempo che il libro interpone tra sé e l’attualità più bruciante, ponendosi come incunabolo saggistico-letterario di un crogiolo di fatti, di uno stratificato groviglio di implicazioni, tra collasso dell’impero ottomano e successivi eventi politico-militari.
Ma il lettore si prepari anche a una storia d’amore,
splendido e straziato collante tra i tanti agguati della realtà di cui è
strutturata la trama, una passione narrata con straordinaria sensibilità tra
cantico e tragedia, vertigine e verità. In casa di Selim Hanim, segretario del
sultano Mehmet vi, maestà imperiale di un regno ormai al crepuscolo, regna
l’umiliazione della resa incondizionata del Paese ai vincitori (inglesi,
francesi, italiani e greci). Non solo, ma grava anche la confisca
dell’abitazione a favore del capitano di fregata Louis Gardelle. Rende appena
vivibile lo smacco nazionale e la forzata condivisione abitativa con l’ufficiale
francese e la sua famiglia, la delicata presenza della moglie di Selim, Leyla,
il personaggio chiave del romanzo, affascinante donna di intoccabile dolcezza e
risoluta discrezione.
Fortunatamente la scomparsa del figlioletto Hamet di
sette anni, persosi nei labirinti della città e per puro caso ricondotto ai
genitori proprio dall’“invasore” Gardelle (incolpevole della problematica
situazione, tanto da diventare poi amico degli Hanim), si risolve nelle prime
pagine del libro, ma basta a sottolineare la fiera compostezza del padrone di
casa e la sovrastante autorità di Leyla.
Se in qualità di dignitario
d’ambasciata, Selim ha il suo daffare, stante il pesante clima d’armistizio a
guerra perduta (deve tra l’altro recapitare un plico regale all’unico comandante
in campo dell’esercito ottomano, Mustafa Kemal), dal canto suo Leyla Hanim è
impegnata, oltre che in altre lodevoli attività, nella lotta per l’emancipazione
delle donne musulmane, viste per tradizione, per legge e per comodità, sempre
accanto ai loro mariti, uomini scelti “per” loro ma non “da” loro, con i quali
raggiungere più che altro una tollerabile intesa coniugale.
Il libro di Révay
fa luce quindi, parallelamente, sia sul versante storico e militare del
sessennio 1918-1923 in cui si snodano le sue tre parti, sia su quello dei
costumi, dei sentimenti, degli stati d’animo relativi al femminile di
quell’oriente fascinoso e cosmopolita, segreto e ineffabile, qui incastonato tra
una riva e l’altra del Bosforo. Un braccio di mare a sua volta protagonista di
queste pagine, tra musicalità delle lingue parlate e cantate, inarrivabili
colori di cose e case, abbigliamenti, sapori e profumi, tagli di paesaggio di
sole e di luce, e nondimeno cupi e ostili.
Quando il racconto matura i suoi
intrecci, le trame si dividono come i destini dei personaggi. Selim (che in
incognito si è sposato un’altra volta) si allontana dal Paese, mentre Leyla,
avendo ospitato in casa un certo Hans Kastner, giovane archeologo amico di suo
fratello Orhan, votatosi con lui alla resistenza nazionalista e rimasto ferito
in uno scontro con la polizia, finisce con l’innamorarsene, ricambiata. La
contingenza avvierà entrambi verso una vita di difficoltà, complicazioni
affettive, divieti morali e interdizioni legali. Di fatto, la scrittura
dell’autrice predilige la storia d’amore, pur non trascurando di proiettarla
sullo scacchiere degli avvenimenti (battaglie, attentati, strategie di truppe
ufficiali e attacchi di partigiani, ma soprattutto miserie di popolo, violenze e
migrazioni), né mai dimenticando la questione di fondo dell’indipendenza delle
donne, della loro libertà di pensiero e di azione.
Negli occhi e nella memoria del lettore resta la città millenaria e ineffabile, tra le rive del Bosforo.
di Claudio Toscani
Piazza S. Pietro
16 dicembre 2019

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