Un agile e istruttivo libretto, questo Ammazzateli tutti. Storie di banditi del Veneto di Francesco Selmin (Verona, Cierre Edizioni, 2016, pagine 142, euro 12). Istruttivo perché ci racconta cos’erano le campagne italiane solo pochi anni prima dell’unificazione e con che metodi sbrigativi agiva allora la giustizia per scoraggiare il crimine.
In breve, la storia è la seguente. Siamo nella prima metà
dell’Ottocento, nel Veneto meridionale, fra le attuali province di Padova e
Rovigo, a ridosso dell’Adige e del Po: una terra di confine, prossima allo Stato
pontificio, infida, poco controllabile, tra canali e paludi, infestata dalle
zanzare nella stagione estiva e oppressa dalle nebbie in quella invernale. Qui,
in età napoleonica, le insorgenze antifrancesi si mischiarono alle forme
tradizionali della violenza campestre antipadronale e seminarono paura e
disordini, inducendo il governo ad adottare le maniere forti. Nel 1812 la
temibile banda che faceva capo a Giovanni Stella fu debellata in forme che
dovevano diventare esemplari: dodici condanne a morte, eseguite mediante
decapitazione nella piazza Castello di Padova.
Poi se ne andarono i
francesi e vennero gli austriaci, ma l’agitazione rimase sempre latente. Alla
vigilia del 1848 un rapporto di polizia scriveva che «le genti lungo al Po sono
proclivi alla rapina, e le mantengono in questa rea tendenza i contatti con
l’estero e la possibilità di spacciare i corpi di delitto al di là del fiume».
Il basso Veneto restava una terra di contrabbandieri, facilitati dagli infiniti
nascondigli offerti da un territorio palustre e anfibio. I moti quarantotteschi
e la repubblica di Venezia di Daniele Manin fecero il resto, abbandonando a se
stesse per più di un anno queste campagne. Quando la rivoluzione fu debellata e
Venezia riportata all’ordine, il governo del maresciallo Radetzky passò
all’azione.
L’impunità e l’anarchia avevano creato le condizioni perché
motivazioni politiche, spinte sociali e delinquenza pura e semplice si
mescolassero in una miscela esplosiva. E così anche la repressione sparò nel
mucchio, senza troppo distinguere.
Le leggi di guerra e lo stato d’assedio
misero in vigore i “giudizi statari”, che nel codice austriaco prevedevano
brevissime inchieste, non senza uso di violenze fisiche per estorcere
confessioni, e immediata condanna dei colpevoli, subito seguita dall’esecuzione,
senza possibilità di appello né richieste di grazia.
Il primo di questi processi sommari si svolse a Este (una ventina di chilometri a sud di Padova) il 18 giugno 1850. Tutto si svolse e concluse in una giornata. Prima del tramonto la sentenza di morte, pronunciata al mattino, era già stata eseguita per dieci dei diciassette imputati. Gli altri sette ebbero vent’anni di carcere duro. Poi il tribunale statario si spostò nei paesi vicini e operò con la stessa spietata determinazione. La sentenza veniva eseguita per impiccagione, decapitazione o fucilazione. Dipendeva dalle circostanze e dalla disponibilità di un boia. In qualche caso si appurò poi che i condannati erano del tutto innocenti. Ma quando emerse che non c’entravano, i malcapitati erano già saliti sulla forca.
di Gianpaolo Romanato
Piazza S. Pietro
07 dicembre 2019

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