L’economia africana sta dando non poco filo da torcere agli analisti internazionali. Infatti, stando ai dati forniti dal Fondo monetario internazionale, fino al 2015 vantava la percentuale di crescita economica continentale più alta del pianeta. Il Ghana, ad esempio, nel 2012 era cresciuto del 13,5 per cento, il Niger del 12,5 per cento, l’Angola del 10,5 per cento. Mediamente, la crescita del pil, a livello continentale, quell’anno era stata intorno al 6 per cento. Oggi, invece, l’Africa è tornata a essere vulnerabile, in un contesto, peraltro, dove l’esclusione sociale è sempre stata una costante. Sta di fatto che la stima di crescita per l’anno che si è appena concluso, il 2016, è dell’1,3 per cento, il livello più basso degli ultimi trent’anni. La posta in gioco è alta se si considera che il fenomeno della mobilità umana dalla sponda africana — che tanto preoccupa le cancellerie europee — coinvolge un numero rilevante di migranti economici.
Per comprendere le ragioni di questo
rallentamento del pil a livello continentale, occorre subito dire che l’Africa,
nel suo complesso, non è affatto estranea agli effetti devastanti della finanza
speculativa.
Nel passato si è sempre pensato che i mali del continente (in
particolare dell’Africa subsahariana) fossero causati dalla debolezza dei
processi produttivi, dei consumi e dei movimenti in rapporto alla domanda e
all’offerta sul mercato delle commodity (fonti energetiche, minerali e prodotti
agricoli). Questo è certamente vero, anche oggi, perché dai prezzi delle materie
prime dipende il destino dei governi e dei popoli. Basti pensare che il valore
delle esportazioni africane ha subito nel 2016 una contrazione di 12.000 milioni
di dollari a causa della caduta delle quotazioni delle materie prime. A questo
proposito, ha sortito un effetto positivo la decisione dell’Opec, adottata a
Vienna lo scorso 30 novembre, di tagliare dal primo gennaio 2017 la produzione
di 1,2 milioni di barili al giorno rispetto ai valori di ottobre (portandola
quindi a 32,5 milioni circa). Ciò non toglie che il cammino di ripresa sarà
lungo perché l’alto indebitamento delle imprese nel settore delle commodity
(africane e straniere), del petrolio in particolare, ha fatto sì che queste
aziende attingessero largamente le loro risorse finanziarie sia dal settore
bancario sia sul mercato obbligazionario. Sta di fatto che essendo i titoli
azionari e obbligazionari delle imprese petrolifere collegati al prezzo dell’oro
nero, i loro valori di mercato ne hanno risentito fortemente (particolarmente
nel corso del 2016). Come se non bastasse, per rispondere alla mancanza di
liquidità queste aziende dell’oro nero hanno aumentato, nel recente passato, la
produzione con l’intento di mantenere un flusso di cassa attivo, ma in alcuni
casi sono state costrette a una riduzione degli investimenti o addirittura alla
dismissione di una parte del patrimonio aziendale. Ciò ha determinato un calo
degli introiti da parte dei governi locali, nella fattispecie quelli africani.
Dulcis in fundo, in fase di caduta del prezzo, la speculazione ha giocato al
ribasso. Questo, in sostanza, ha significato che si vendevano sulla carta
prodotti finanziari legati al petrolio, i future, a 100 per ricomprarli il
giorno dopo a 90. Il contrario di quanto succedeva nei periodi di crescita del
prezzo quando si compravano i future a 100 per venderli a 110 alla scadenza,
partecipando così all’esplosione dei prezzi.
di Giulio Albanese
Piazza S. Pietro
16 dicembre 2019

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