Salvatore M. è un affiliato della mafia catanese, pluriomicida condannato all’ergastolo da prove schiaccianti. Il maxi-processo si svolge a Torino, in un clima di guerriglia senza esclusione di colpi. Il giudice che presiede — autore del libro — si arrovella tra una miriade di protocolli, la montagna dei fogli da leggere dell’istruttoria, una personale mai allentata tensione a discernere con sapienza tra i diversi tipi e casi umani in mezzo alle esigenze di spicciola umanità. Dalla gabbia da dove la Corte non riesce a vederlo alla prima udienza Salvatore, presente, non risponde all’appello. È un soggetto pericolosissimo: chiamato in precedenza a un interrogatorio, aveva estratto di bocca una lametta avventandosi sul magistrato di turno. Alla seconda udienza risponde con un gesto, arrampicandosi sulle sbarre della sua “posizione”. Il giudice preferisce non chiamarle gabbie, ma immediatamente collega la dimostrazione a quanto aveva trovato annotato tra le carte del relativo fascicolo: nel dialetto dell’imputato uno dei suoi soprannomi suona in italiano “gatto selvatico”.
Intanto il clima di guerra — si legge nel libro
di Elvio Fassone,
Fine pena: ora, (Palermo, Sellerio, 2015) — si
stempera un poco perché, con la fermezza necessaria là dove non si può derogare,
il giudice si rende disponibile ad ascoltare le istanze di varia umanità.
E
contrariamente alle previsioni, anche autori di delitti efferati in gran numero
hanno le loro piccole grandi richieste da avanzare: Salvatore chiede di potere
vedere la madre morente, senza scorta e libero dalle manette. Dopo qualche tempo
una confidenza: «Mi chiamo Carmelo», come il fratello di poco più grande, «morto
sparato. Ho preso il suo nome. A noi che siamo maledetti, o la tomba o la
galera. Che vuole che ci aspetti, a chi nasce nel Bronx di Catania?».
Con i
suoi rituali il processo compie forse una sua piccola, nascosta opera di
civilizzazione e giunto ormai all’epilogo, con l’ultimo ricevimento il colloquio
assurge a «una sorta di addio spirituale»: «Presidente, lei ce l’ha un figlio?
(...) Glielo chiedo perché volevo dire che se suo figlio nasceva dove sono nato
io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari
ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo».
Altissima poesia attraversa i
capitoli brevi di una narrazione coerente anche nel suo ritmo.
Poesia in
primo luogo perché l’autore, non muovendo da intenti letterari ma fedele alla
realtà, non cessa di interrogarla e penetrarla, non cessa di interrogarsi
lasciando aperte le domande ma non senza riconoscere la bellezza che si annida
in mezzo alla prosa di questa povera storia, i tratti della poesia anche in
certe pieghe della mente: «Salvatore, con il fatalismo che soccorre la
disperazione, pensa alla sua “maledizione” atavica che in qualche modo lo
giustifica ai propri occhi, pensa alla nuvola nera che avvolse la sua culla
quando entrò nel mondo, e mi dedica la strada alternativa che avrebbe potuto
(forse voluto) percorrere: quella di essermi figlio, un figlio fortunato,
avvocato e galantuomo».
Ci vuole una certa sensibilità, infatti, non tanto
per farsi scalfire dal pudore di questa sorta di omaggio, ma per immediatamente
riconoscere che il fatalismo può giungere a illudere di soccorrere la
disperazione. Resta, indipendentemente dalle interpretazioni, quel fondo di
verità che oggettivamente può inchiodare l’uomo all’ambiente della sua
formazione.
Le domande senza risposta non sono cassate: giunti a ridosso
della sentenza, nel mese di forzata detenzione dei giurati in camera di
consiglio, nelle pause tra le varie discussioni l’inevitabile domanda
sull’utilità della pena slitta da sé — in una dimensione di ordine più
“religioso”?, giacché, diverso dal pietismo, il senso della pietas che ci fa
prossimi allo sventurato ha una sua natura di ordine religioso — nel più
radicale interrogativo: chi sono io per punire.
Nella coscienza della fede
cristiana risuonano le parole di Gesù: fino a settanta volte sette, cioè sempre,
si dovrà perdonare, che equivale al contrario di “fine pena: mai”, come è
scritto sui fascicoli di chi è condannato alla reclusione a vita. Di fronte a
questa realtà un cristiano non può non sentirsi pungolato dalle parole con cui
prega — «Padre nostro, rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai
nostri debitori» — o dalle parole di Gesù a chi si accinge a lapidare
l’adultera: «Chi non ha commesso peccato scagli la prima pietra».
di Annamaria Tamburini
Piazza S. Pietro
07 dicembre 2019

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