· Città del Vaticano ·

Verso la Giornata mondiale dei bambini/4
La testimonianza di un sacerdote nella Repubblica Democratica del Congo

Piccole vittime
di un conflitto dimenticato

 Piccole vittime di un conflitto dimenticato  QUO-101
04 maggio 2024

Nella Repubblica Democratica del Congo i soldi hanno un odore acre. Sono sporchi di sangue. Di sangue versato dai bambini. I racconti di don Théodore Cyebwa Kanyinda, che per tre anni è stato presidente del tribunale diocesano della città di Mbujimayi, capoluogo del Kasai orientale, non è facile comprenderli: i massacri, le carneficine, le complesse situazioni politiche e sociali che vive questa regione dell’Africa risuonano incomprensibili all’orecchio di chi è nato lontano da luoghi dove l’innocenza dei bambini viene sfigurata, calpestata e troppo spesso dimenticata. Per gettare luce su questa realtà, proseguendo il nostro viaggio nel mondo dell’infanzia in vista della prima Giornata mondiale dei bambini — in programma il 25 e 26 maggio prossimi a Roma — abbiamo parlato con don Théodore, che da anni sta svolgendo una ricerca in merito ai diritti calpestati dei bambini nella sua terra d’origine. Il campo d’indagine verte soprattutto sul come poter risarcire le numerosissime vittime di tale violenza. Non è importante solo individuare, analizzare le svariate condizioni di disumanità della terra congolese, ma anche cercare di comprendere come ridare dignità e futuro a bambini privati della loro innocenza.

Per poter comprendere l’odierno scenario di questa regione dell’Africa, è necessario partire da lontano. Cyebwa Kanyinda spiega a «L’Osservatore Romano» che in Repubblica Democratica del Congo, da trent’anni e più, si vive una guerra difficile da risolvere perché gli attori principali non sono solo interni ma anche esterni. Questo è il grande problema. Dal punto di vista interno ci sono molti congolesi che fanno business con il sangue dei poveri, soprattutto dei bambini; dal punto di vista esterno, abbiamo una comunità internazionale che risulta assai ambigua e soprattutto silente davanti a tale macabra realtà; ed è proprio questa comunità a ravvivare la guerra nel Paese per motivi prettamente economici. È stato lo stesso Papa Francesco nel suo viaggio apostolico del febbraio 2023 a denunciare in maniera esplicita tutto questo atroce scenario definendolo “genocidio”».

Il primo tema da approfondire per capire quanto i bambini vengano violentati psicologicamente in questa terra che sembra così lontana, e che invece è assai più vicina di quanto sembra, è quello dello sfruttamento: «Il territorio del nostro Paese — continua il sacerdote — è ricco di minerali utili per tanti scopi: vengono utilizzati, a esempio, per costruire le batterie delle automobili, oppure per la fabbricazione di satelliti. E poi c’è soprattutto il coltan, un minerale estremamente prezioso ed essenziale per il funzionamento degli smartphone e ampiamente utilizzato nell’industria elettronica, informatica e automobilistica». Il raggio è ampio. Per poter estrarre questi materiali si fa uso della manodopera dei bambini; vengono costretti a scavare nelle miniere — per un salario giornaliero di circa 50 centesimi o al massimo di un euro — fino a più di cento metri sotto terra; vengono sfruttati perché si trovano in condizioni economiche disagiate: sono privi di tutto. La maggior parte di essi vive in zone segnate dalla guerra: una volta divenuti orfani dei genitori uccisi dalle milizie, l’unico sostentamento possibile non può che provenire da questa tipologia di lavoro.

Vi è poi la grande piaga della prostituzione: «Corpi innocenti venduti, per la stragrande maggioranza, ai soldati. Uno scenario da brividi che va contro ogni diritto dell’infanzia. Molte bambine sono costrette a dover vendere il proprio corpo perché si trovano nella condizione di dover dare sostentamento ai loro fratelli più piccoli. Anche in questo caso sono bambine a cui hanno ucciso i genitori. Diversi villaggi sono sterminati a colpi di mitragliatrice: corpi insanguinati giacciono privi di vita a terra. Qualsiasi bambino non può che rimanere scioccato per tutta la vita da simili immagini e per cancellarle, il più delle volte, diventano vittime di dipendenze da alcool o droga», ci spiega don Théodore.

Inoltre, c’è il ruolo ricoperto dai bambini negli stessi conflitti intestini: «Vengono utilizzati come macchine da guerra; i gruppi terroristici li indottrinano per uccidere. E se qualche bambino vuole resistere, gli vengono uccisi i familiari: cercano così di instillare in loro la sete di morte», racconta il sacerdote. Ci sono infinite testimonianze di queste violenze inaudite: il bambino, dopo aver assistito a scene del genere, prova un’inesauribile sete di vendetta; si alimenta in lui l’odio. I vari gruppi terroristici — fra i tanti ricordiamo l’Allied Democratic Forces (Adf), in origine ribelli musulmani ugandesi che si sono stabiliti dalla metà degli anni ’90 nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, o l’M23, sigla che sta per Mouvement du 23 mars, un gruppo armato composto perlopiù da combattenti della comunità tutsi — «reclutano i bambini per andare contro i militari. Un esercito di bambini è schierato contro un altro esercito, quello governativo: proiettili contro altri proiettili; sul terreno, una carneficina», viene sottolineato. Difficile scrivere di numeri. Le statistiche sono assai approssimative «perché rimane alquanto complesso quantificare i bambini che vengono coinvolti quotidianamente in questa spirale di violenza. La Repubblica Democratica del Congo si estende per circa 2.350.000 chilometri quadrati: un territorio davvero vasto che vive costantemente situazioni del genere», precisa Cyebwa Kanyinda.

In questo scenario è possibile intravedere semi di speranza? Un primo passo c’è stato: l’istituzione di un fondo nazionale per le riparazioni (Fonarev) che dovrebbe beneficiare di sovvenzioni statali e donazioni e che sarà utilizzato non solo per risarcire le vittime ma anche per contribuire alla loro assistenza, compreso l’accesso alla giustizia. Ma, oltre a ciò, ancora più grande rimane il seme di speranza rappresentato dallo «stesso popolo congolese: un popolo che spera, lotta e crede che domani sarà migliore».

di Antonio Tarallo