· Città del Vaticano ·

Una, cento vite avvolte in un maglione viola

 Una, cento vite avvolte  in un maglione viola  ODS-019
02 marzo 2024

Magda ha fatto la contrabbandiera, la manovala, la badante, la pittrice. Ha scritto poesie pubblicate in piccole sillogi, ha tenuto la mano a persone malate che ha amato e assistito fino all’ultimo giorno come fossero pezzi della sua stessa famiglia, ha dipinto le pareti di cinque scuole dell’infanzia, ha messo lumache dentro l’olio d’oliva per creare pozioni di guarigione secondo antiche ricette — ma non bisogna lavare i gusci, mi raccomando, tiene a precisare.

Magda parla molto, ma non veloce, fluttua da una frase all’altra, da un momento all’altro della sua vita, cambia argomento come se stesse girando le pagine della sua biografia, è razionale e lucida e poi improvvisamente magica, ipnotica. Come accade in tutte le vite, anche la sua è caratterizzata da una mistura di ciò che ha scelto e ciò che le è capitato, anche se è arrivata a un’età, o forse solo a un livello di saggezza, in cui la distinzione non è più importante.

Così, siamo sedute vicine io e lei. Non una di fronte all’altra, come ci si aspetta dalle interviste, ma accanto, come se mentre lei parla stessimo guardando lo stesso film proiettato sulla parete di fronte a noi. Magda parla e io ascolto, eppure ho un gran rumore nella testa come se a parlare fossi io, e mi vergogno perché io ho vissuto molto, ma non so cosa significhi la strada, e non so come ci si sente a non avere una casa da decenni, e non so quasi niente di quello che lei sa — eppure, mi viene subito da abbracciarla, di stare dalla sua parte.

È una donna, e questo fa la differenza: perché la violenza per strada esiste per tutti, ma nel mondo esiste una violenza specifica che viene usata contro le donne, e la violenza di genere si somma a tutte le altre, oppure si fonde con loro. Io però questo non lo dico. Lo penso, ma allineerò le idee dopo. Ascolto.

Ascolto e mi riempio, mi perdo e mi ritrovo. Una vita, cento vite. Magda è stata strega, moglie, madre, amante, amata, ripudiata, truffata, derubata. Ha avuto case e terreni e poi non ha avuto più niente, ha avuto tre figlie e ne ha persa una la cui foto mi mostra subito, come un biglietto di presentazione. Resterà sempre giovane, bionda, sorridente come in quell’immagine prima di morire — e Magda resterà sempre sua madre, anche adesso che la sua ragazza adorata non è più su questa terra.

Mi parla di malattie, di cure, di ospedali — di come ha dovuto lasciarla andare, senza mai dire che l’ha fatto. Possiamo davvero lasciare andare una figlia?

Magda ha avuto anche un marito, ma di lui è rimasto solo uno sbuffo e un cenno della mano: non vale la pena parlarne. Poi però Magda parla anche di lui, di come lo ha accolto e protetto, difeso dalle accuse, e di come invece lui non le è stato grato e dopo qualche anno le ha portato via tutto.

Parla di sé in giro per l’Europa, a nascondere merci sotto una gonna zingara, a varcare confini che non si potevano varcare e spostare carichi di qua e di là con la complicità delle guardie.

Parla dei campi in Romania, di ciò che si coltivava un tempo, di ciò che si coltiva adesso.

È un bel mistero Magda, un enigma avvolto in un maglione viola, arriva con il cappello calato sulla fronte, sui capelli corti, e comincia a parlare con la stessa naturalezza che ha nel camminare, anche se è ammaccata dagli acciacchi e dai postumi di una brutta aggressione: qualche tempo fa è stata aggredita da un connazionale, vicino a Termini, un uomo che aveva deciso di aiutare. Si era fidata, e invece...

Ma si fida sempre, e sempre si fiderà: riesco a immaginare Magda indurita, ma mai asserragliata, forse potrà essere più cauta, ora che è diventata più dolorante, ma avrà sempre bisogno di schiudersi e lasciar entrare l’aria, avrà sempre bisogno di cantare.

Ha una voce bellissima, come sua figlia: mi mostra i video della ragazza su Facebook e le si riempiono gli occhi d’orgoglio, quella ragazza che canta in faccia al destino l’ho fatta io — sembra dire.

Magda si chiama Magdalena, e per me da subito è un personaggio della Bibbia, è lei Maddalena. Ma da quelle pagine si è mossa e ha spiccato il volo, un volo che non sempre ha saputo né potuto controllare. Ha imparato le lingue che le servivano per spostarsi in Europa, compreso il sardo, la lingua della prima regione dove è arrivata in Italia. Poi ha insegnato la sua, il rumeno, trasmettendola un giorno dopo l’altra alla persona di cui si prendeva cura, una donna anziana che a un certo punto si è messa a telefonare alla famiglia di Magda perché era diventata un po’ la sua. Chissà come sembra la Romania, vista dal Golfo degli Aranci. E chissà com’è il rumeno, se parlato con accento sardo — certo, ci viene più facile pensare il contrario.

C’è Magda, e poi ci sono io. Quando mi sono trasferita dalla Sicilia a Roma, vent’anni fa, pensavo che una parte di me non si sarebbe mai staccata dalla Stazione Termini, che sarei stata sempre quella ragazza con la valigia nera che appoggia il bagaglio a terra e sente di essere arrivata a casa, una casa nuova che però sarà per sempre sua.

A lungo ho continuato a sentirmi a casa in stazione, una di quelle terre di nessuno che appartengono ai migranti di ogni genere — poi a Roma ho messo radici e la stazione si è allontanata, si è distaccata da me come la valigia nera che ho rotto e buttato.

Ci sono stati periodi in cui la stazione mi faceva paura, perché era pericolosa per una ragazza, perché ci avevano ammazzato qualcuno, perché nessuno poteva attraversarla senza tenere la borsa chiusa davanti e gli occhi bene aperti. Ci sono stati periodi in cui ho avuto paura di partire, perché vivo bene nella routine — e periodi, tanti, in cui sono partita spesso, per lavoro o semplicemente perché a volte la vita ti porta qua e là. In tutti quei periodi la stazione mi è sempre sembrata un coacervo di storie, mai del tutto afferrabili.

Mi allontano dalla stazione nell’illusione di aver toccato l’essenza di Magda, con ancora addosso la sensazione pungente del suo maglione viola. Mi allontano e sento il bisogno di camminare a piedi, e di stare zitta a lungo, fino a sera. Fino a quando la sua vita non avrà smesso di parlarmi — non so ancora che questo non accadrà, e che è giusto così.

di Magdalena Podoiu e Nadia Terranova