· Città del Vaticano ·

8 marzo

Storie di DONNE senza dimora

 Storie di DONNE senza dimora  ODS-019
02 marzo 2024

Mi piacerebbe poter dire: Le donne povere sono fatte così… Le donne povere le riconosci da… Le donne povere si distinguono per il fatto che… Ma poi mi chiedo: perché riconoscerle? Per quale ragione dobbiamo distinguere le donne povere dal resto delle donne o dal resto dei poveri? Non mangiano lo stesso cibo che mangiamo tutti, non hanno gli stessi sogni che abbiamo tutti, direbbe Shylock? E subito qualcuno gli riderebbe dietro: «Eh no, caro mio, le donne povere mangiano alla Caritas e i loro sogni…». Quali sogni può avere una che dorme sempre con un occhio aperto per paura che qualcuno, magari lo stesso uomo con cui mangia, le faccia violenza?

E allora di nuovo mi domando: come sono queste donne povere? E non trovo risposte. Non conosco la formula, il ph della donna povera, io l’unica cosa che conosco sono le signore che incontro per strada, e in questo 8 marzo della memoria io ricordo loro.

Ricordo Tita così abbondante e testarda che tutte le volte che ci vedevamo mi diceva: «Hai sigaretta?» E tutte le volte le rispondevo: «Tita, lo sai che non fumo». Ricordo Alina che parlava poco e forse poco capiva di un mondo codardo e crudele che riduce un giovane corpo a uno straccio e senza posa lo inzuppa delle proprie sporcizie. Ricordo Stella che sotto la giacca aveva mille strati: golfini, camicie, magliette, di nuovo golfini e magliette e sciarpe e foulard e giornali, «Ricordati — mi disse una sera d’inverno —, nulla ci ripara più che i giornali». Mi ricordo Sandia, la piccolina, ricordo i suoi immensi occhi azzurri e le sue enormi collane colorate, ricordo le lacrime che senza preavviso precipitavano da quegli occhi quando lei mi abbracciava e, anche se non capivo quel pianto, io la tenevo stretta: «Non piangere», dicevo a lei, «Non piangere», mi diceva. Ricordo Danka che divideva con me i panini incartati del pranzo col Presidente. «Presidente molto gentile con noi», mi diceva mentre addentavamo tramezzini ai gamberi e al caviale, e chi li aveva mai mangiati! Ricordo Lorena — o Loretta, qualche giorno si faceva chiamare in un modo, qualche giorno nell’altro —, ricordo i racconti di quando andava a Ostia per sbrigare degli affari. «Quali affari?», le chiedevo. «Affari», diceva lei, «e dopo siamo andati dal Forchetta, a mangiare», aggiungeva e io: «Il Forchetta ancora me lo sogno», come si sognano le Piramidi quando non le hai mai viste. Ricordo Lina che adesso ha i capelli grigi tagliati corti, ma quando mi guarda con quei suoi occhi tanto grandi, in quel volto piccino io rivedo la bambina di un tempo e la vecchina di adesso. E poi ricordo Imen che aveva vinto la battaglia contro il cancro, ricordo i suoi occhi scuri e decisi, ricordo la giacchetta rosa che portava sempre, ricordo il ponte da cui fu precipitata una notte di maggio, ricordo le pagine dei giornali, i servizi alla tv, ricordo quella stessa giacchetta rosa ricomparire qualche tempo dopo indosso a Destiny, gliel’aveva lasciata Imen proprio la sera prima di morire.

Ricordo… No, ormai non ricordo più tutti i nomi dei fratelli di Destiny, mi ricordo solo quello della sorella minore, Florence, che non ho mai visto. Chissà se sarà ancora in Africa o avrà raggiunto Destiny qui in Italia, per poi sparire anche lei chissà dove. E ricordo Suor Elaine e Renata e Alessia e Debora e Anna, che, riunite in una cucina del Quartaccio preparano da mangiare per le signore — e i signori — che vivono sotto al colonnato di San Pietro, e poi ricordo Leonardo, sì, ancora lo ricordo, lui che solo da me si faceva chiamare così, mentre per gli altri era Camila, ricordo il cappellino rosa e la puzza di alcol, la voce impastata e le notti al freddo e i deliri e le allucinazioni e il peso di un corpo di un metro e ottanta sulle spalle e la forza, ricordo tutta la forza che ci vuole per stare accanto a qualcuno che cade e si rialza e cade di nuovo e tu non lo sai mai se si rialzerà, ti prego rialzati, o rimarrà lì per terra come sono rimasta io tante volte, ti prego, ti supplico, rialzati, tu non lo sai cosa avverrà, tu sai solo che quella donna, povera o ricca, donna o uomo, non la puoi salvare, puoi solo starle accanto. Fino a quando ti vuole.

Per questo 8 marzo avrei voluto dire: Le donne povere siamo tutti, tutti frammenti di un puzzle di cui a stento intuiamo i contorni, misteriosa rimane l’immagine — troppi buchi, troppi tasselli mancanti. Per questa festa della donna avrei voluto dire: Siamo tutti come le mie signore, tutti dannatamente slegati da ciò che abbiamo intorno, dannatamente incapaci di affidarci e di fidarci fino in fondo, tutti dannatamente ribelli e rovinosi, stanchi e sognatori, ma in quest’ennesimo 8 marzo, in tutti i giorni che lo precedono e che lo seguiranno, io l’unica cosa che so è che mi sento, è che noi tutti possiamo sentirci una di loro. Una di noi. (Violante Sergi)

di Violante Sergi