· Città del Vaticano ·

La storia di Rosa Sul marmo del colonnato di piazza San Pietro che sembra una grande voliera

La signora dei piccioni

 La signora dei  piccioni  ODS-019
02 marzo 2024

Cambiamo strada, hai detto. Io ho proseguito dritto. Per favore, hai ripreso, passiamo da un’altra parte. Io ho continuato sulla stessa traiettoria. Tu mi hai tirato per un braccio. Non mi piacciono, hai detto. Cosa non ti piace? Guardavi dritto, di fronte a noi: lì, sul marciapiede uno stormo a ranghi molto ridotti era appena atterrato, forse attratto da qualche briciola, forse da qualche abbaglio. Non ti piacciono i piccioni? Non hai risposto, ma nel tuo sguardo c’era, non posso dire odio perché l’odio non ti appartiene, eppure guardavi quegli uccelli come si guarda un nemico. I piccioni portano le malattie, non lo sai? Allora mi sono voltata e di colpo li ho visti: chini sul marciapiede affannarsi ciascuno su qualche avanzo, e dire che in questa città il cibo non manca. Tante cose portano le malattie, ti ho detto, e la tua voce rapace mi ha graffiata: Tipo?

Nell’aria risuonano ancora le campane di San Pietro quando mi incammino da sola lungo il colonnato e, seduta su un gradino, noto una signora. Deve essere nuova, mi dico, non l’ho mai vista, e una così me la ricorderei — anche se tu dici che dimentico tutto —. È una donna imponente come una colonna del Bernini, ma con il volto morbido dei putti e dei grandi occhi che sembrano aver rubato al cielo l’azzurro della primavera imminente. Intorno a lei è radunata una piccola comitiva di piccioni che becchettano tra un sanpietrino e l’altro, mentre la donna lancia in aria quel che resta del suo pranzo.

Ogni tanto qualcuno di loro vola, ma giusto per posarsi sul braccio di lei come fosse il ramo di un albero dagli occhi azzurri. Non lo sai che i piccioni portano le malattie?, le vorrei dire, ma forse lei lo sa, forse non le interessa, come non le interesso io che senza chiedere il permesso mi siedo accanto a lei e le domando: Sei qui da poco? Stamattina, dice lei e intanto guarda i turisti migrare da un lato all’altro di piazza San Pietro. Li guarda come si guardano gli uccelli migratori che d’inverno colorano il cielo e a me sembrano immense ombre cinesi che cambiano di continuo. Poi, a poco a poco, i turisti svaniscono — è ora di pranzo — e anche i piccioni volano altrove — a cercare altro cibo in questa città dove il cibo non manca — e lungo il colonnato non rimane nessuno.

Non ti senti sola? La donna scuote la testa come un bambino che riconosce il suono della voce, ma ancora non distingue il significato delle parole. Qui c’è sempre qualcuno, dice lei, sempre senza guardarmi e io vorrei farle notare che no, adesso non c’è proprio nessuno, ma il fatto che le sieda accanto temo non sia d’aiuto alla mia tesi, così le dico: Come ti chiami? Da dove vieni? Che cosa fai?

Rosa viene da Palermo. Ma lo sai che anche mio nonno era di Palermo? Rosa non pare colpita dalla notizia e continua a fissare dritto di fronte a noi quelle immense colonne del Bernini attraverso cui filtra la luce del sole. Sei qui da poco, le dico. 15 anni, quindici anni? Possibile che non l’abbia mai vista? E sei stata sempre qui? Sì. Sempre con i piccioni? Sì, risponde Rosa sempre con quel sorriso da bambina che non la lascia mai. Ma possibile che non me la ricordi?

Tu ricordi solo quello che ti fa comodo, hai detto poco dopo che son tornata dalla clinica. Avrei voluto dirti: Non è vero. Avrei voluto dirti: Lo fanno tutti, tutti ricordano solo quello che gli fa comodo, anche tu, ma so che non è vero, tu ti ricordi sempre di me e io certo non ti faccio comodo, questo è poco ma sicuro.

Sai, Rosa, l’anno scorso sul terrazzo della clinica dov’ero ricoverata, un piccione ha fatto il nido e poi sono nati tre uccellini. Per la prima volta da quando sono lì, lei si volta e mi guarda e nei suoi occhi c’è tutto il cielo di Roma, un cielo che si staglia su un volto incrostato di briciole e di un forte odore, un odore che conosco, è l’odore di chi non si lava forse da un giorno, forse da tanti giorni. Allora, mi volto e guardo le immense colonne del Bernini, che adesso mi ricordano le sbarre di una gigantesca voliera da cui filtra a poco a poco sempre meno luce: il sole sta tramontando.

Rosa mi racconta dei suoi piccioni. Perché li riconosci? Senza smettere mai di sorridere lei dice: Certo. E li chiami per nome? Certo. E come si chiamano? Titti, Gino, Vincenzo, Elisabetta, Clara, Egidio e… E mentre io mi domando come faccia Rosa a distinguere le femmine dai maschi, se per via del piumaggio o di altre indagini più specifiche, d’improvviso sento che accanto a me qualcosa si è rotto, è la voce di Rosa. Troppo tardi, dice. Io devo essermi persa come sempre nei miei pensieri, perché quando la guardo il suo volto è disfatto, tanto che vorrei dirle: Ti prego Rosa piangi, ti supplico, piangi perché se non lo fai tu piango io! Ma le dico solo: Troppo tardi per cosa?

Chicco, dice lei e poi dice: Era cucciolo. Io non ho capito. Lui era vicino alla spazzatura. Non ho pensato. I gabbiani, Rosa dice: I gabbiani, e la sua voce si rompe di nuovo e io penso che i rapaci non sono come noi, i rapaci non pensano, agiscono e basta, questa è l’unica cosa che so, l’unica che mi ricordo da allora.

Quando sono tornata, riprende Rosa, Chicco era lì. Accanto alla spazzatura. Tutto aperto. I due gabbiani giravano intorno. Sono stati loro, dice, ma non lo dice con rabbia, non lo dice con quella rabbia che mi sale dentro se solo ci penso, la rabbia che tu dici sempre: Devi stare calma. Non ci pensare, amore mio, non ci devi pensare. Allora…

La voce di Rosa risuona nell’aria: Allora ho preso Chicco in mano e l’ho lasciato… E io immagino questo cucciolo, immagino questo Chicco con il cuore sbranato che riposa sulla mano di Rosa, una mano sporca di vita, una mano che come quelle dei bambini non distingue tra sani e malati, buoni e cattivi.

Rosa, che fine fanno i piccioni quando muoiono? Niente, dice lei. Non c’è un Paradiso degli uccelli? Lei scuote la testa e insieme guardiamo le immense colonne del Bernini, le immense sbarre di questa gigantesca voliera da cui filtra la luce del mondo. E noi? Per noi c’è un Paradiso? Rosa mi sorride come si sorride ai bambini che ancora credono alle favole, e non dice più nulla.

Prima di andare, prima di correre perché come sempre sono in ritardo e quando arriverò tu mi guarderai con quell’aria fiera e ferita di un’aquila in gabbia e io dovrò inventarmi, sì, dovrò inventare una scusa sperando che non sia la stessa della volta scorsa che già mi sono dimenticata. Prima di lasciarla le chiedo: Rosa, che cosa desideri? Con tutto il cielo di Roma negli occhi Rosa mi guarda e senza pensarci un secondo dice: Essere un piccione, poi come fosse una supplica, come se io, proprio io, potessi realizzare quello che lei mi sta dicendo, Rosa aggiunge: Per un giorno. Almeno per un giorno vorrei essere un piccione.

Hai uno strano odore, dici non appena mi vedi, Non ti sarai fermata di nuovo coi barboni? Non si chiamano barboni, si chiamano senza dimora. Mi punti contro il tuo naso aquilino: Dovresti smetterla se non vuoi… Pensi rapidamente a un modo carino per dire quella cosa e poi dici: Se non vuoi ritornare indietro. E poi lo sai quelli le malattie che portano! Io ti guardo in quegli occhi d’aquila che vuole proteggermi, forse è per questo che guardi le miserie del mondo da troppo in alto. Tante cose portano le malattie, ti dico, e tu ribatti: Tipo? E io penso a Rosa, a com’era, adesso ricordo, com’era quando l’ho vista la prima volta, tanti anni fa quando ancora volavamo e lei era totalmente ricoperta di piccioni, e lei era felice. Tante cose portano le malattie: tipo? Io ti guardo nei tuoi occhi fieri e reali: Tipo i sogni.

(La storia di Rosa è stata raccolta
e raccontata da Violante Sergi
)