· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

Le comunità femminili tornano alla Chiesa delle origini e sono miste

Nuova vita consacrata

 Nuova vita  DCM-002
03 febbraio 2024

I primi nomi sono quelli di nobili romane, come Sabina, o giovani donne, come Pudenziana e Prassede, martiri in nome dell’ideale di vita che avevano scelto: ascesi, preghiera, approfondimento della Scrittura. Ma già ai tempi di Gesù si parla di donne ascete, anonime, come le figlie di Filippo che vivono in verginità in casa propria, e le discepole di Paolo. È nella loro storia che troviamo le prime tracce di vita consacrata al femminile. Monache, suore, apostole laiche seguiranno nei secoli, rispondendo, Vangelo alla mano e con formule diverse, alle domande che la vita e la società hanno posto di volta in volta. Spesso sono state guardate con sospetto o peggio. Una per tutte Teresa de Cepeda y Ahumada, «femmina inquieta, vagabonda, disubbidiente e contumace» per il nunzio apostolico Filippo Sega, poi venerata come santa Teresa d’Ávila, dal 1970 dottore della Chiesa. Oggi le nuove esperienze di consacrazione guardano avanti, più che al passato, non identificandosi in formule antiche e codificate dalla Chiesa. «Non vogliono essere Ordini, né Congregazioni religiose, né Istituti secolari o Società di vita comune. Al centro c’è il desiderio di tornare all’esperienza degli Atti degli Apostoli e quindi alla comunità di vita, mettendo da parte le distinzioni e le strutture giuridiche che precedentemente costituivano uno dei pilastri della vita consacrata. La principale caratteristica è che sono miste, un unico istituto dove uomini e donne vivono e pregano insieme, e non due comunità separate», dice don Giancarlo Rocca, paolino, uno dei maggiori esperti del mondo dei religiosi, autore di numerose pubblicazioni e, soprattutto, di un censimento delle nuove comunità, pubblicato dall’Urbaniana nel 2010, che viene aggiornato periodicamente. Il testo presenta circa 800 realtà, nate dal 1960 a oggi, incluse quelle che nel frattempo sono scomparse, perché, spiega l’autore, hanno comunque cercato di individuare e tracciare un nuovo cammino. «Se si considera la compresenza maschile-femminile in maniera assoluta saranno una cinquantina. In generale oggi, parlerei di 600-700, radicate nel mondo occidentale». Dal censimento emerge che si tratta di realtà che raggiungono l’apice delle fondazioni nei decenni 1970-80 (190) e 1980-1990 (222). Il maggior numero nasce negli Stati Uniti (205), poi in Italia (200), in Francia (161), Canada (47), Brasile (44), Spagna (20). Mancano dati per America latina, Asia e Africa, dove resistono le “forme tipiche” di vita consacrata, anche perché la vita religiosa, così come nel secolo scorsi in Occidente, è ancora fonte di emancipazione, offrendo soprattutto alle ragazze la possibilità di studiare e lavorare. Secondo l’annuario pontificio 2023 su 608.958 religiose professe, il 33% vive in Europa, anche se con un’età media molto avanzata, seguite dall’Asia (175.494 consacrate) e dall’America (145.206). Rispetto al 2020, c’è una flessione generale di 1,7%. Il calo riguarda Europa, America e Oceania (-3,5%), mentre invece cresce la frazione delle religiose in Africa e Asia, che sul totale mondiale passa dal 41,1% al 42,3%.

Nel volume sulle nuove comunità i numeri vengono fuori da censimenti locali, pubblicazioni, articoli, internet, verificati tramite contatto diretto. Non esistono altri dati, non ne fornisce il Dicastero dei religiosi, trattandosi di “forme atipiche” rispetto a quelle fissate dal Diritto canonico.

La formula che viene usata a livello ufficiale per alcune di queste nuove realtà, da una trentina di anni, è “famiglia ecclesiale”, che, spiega Rocca, si collega da una parte alla vastità della familia monastica medievale, dove sotto l’autorità dell’abate convivevano conversi, donati, servi, oblati… e dall’altra all’esperienza dei cosiddetti “monasteri doppi” - protrattasi per parecchi secoli - intendendo per famiglia un gruppo maschile e uno femminile, dove non tutti i membri sono consacrati. Una definizione che però sta stretta a molte nuove realtà, perché così «non c'è più l'approvazione come istituto unico, ma il gruppo maschile e il gruppo femminile diventano due istituti indipendenti, uniti da un presidente che non può comandare all'interno dei singoli istituti se non depauperando l'autorità dei rispettivi superiori generali». Inoltre mentre in passato l’allora Congregazione accettava che coordinatore generale fosse anche una donna, a condizione che il vicario fosse presbitero o viceversa - come accaduto per la Comunità mariana Oasi della pace, che ha avuto come superiora generale una sorella -, adesso per il Dicastero non è più possibile.

Le radici di queste nuove realtà traggono linfa da grandi esperienze spirituali patrimonio della Chiesa – influssi gesuitici, francescani, domenicani -, altre affondano nel movimento carismatico o nell’esperienza di Medjugorje. Molte sono state fondate da sposati, marito e moglie. In comune hanno che sono giovani, l’età media 35-40 anni. Da tempo si attende un documento vaticano che dica una parola ufficiale, si pensava sarebbe uscito dopo il convegno mondiale dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità nel 2014, ma al momento nulla di fatto.

Nel frattempo tre convegni internazionali sono stati organizzati dall’allora Congregazione, per tracciare alcuni elementi comuni, con relative luci e ombre. Don Rocca ne elenca alcuni. Guardati con attenzione, non senza rilievi problematici, sono la misteità, cioè la vita comune maschile e femminile insieme, e la multivocazionalità, la presenza di consacrati, coppie sposate, laici, insomma stati di vita diversi. Altra caratteristica delle nuove realtà è che non hanno opere specifiche, come si intendeva in passato, educative o ospedaliere, non fanno un apostolato come comunità. Alcune, poche, considerano l’impegno dei membri come volontariato, da decidersi a livello personale privato, con voti rinnovabili ogni anno, oppure a tempo indeterminato, scioglibili a livello personale, senza l’intervento dell’autorità ecclesiastica esterna. In qualche caso scelgono di essere presenti a livello di Chiesa locale, con un recupero della diocesanità.

Centrale, per queste realtà, è la vita di preghiera comunitaria e personale, l’obbligo della vita comune e la visibilità esterna, adottando spesso un abito religioso. Per certi aspetti «sono avanti, perché, per esempio per le donne c’è la possibilità di predicare, di avere cariche di governo, di fare direzione spirituale, tenere esercizi. Hanno poi un grande senso di ospitalità e di condivisione, tengono alla cultura. Come tutte le realtà nascenti possono correre il rischio di un certo integralismo». Le nuove comunità, spiega Rocca, vanno avanti, anche se non c’è ancora un riconoscimento ufficiale. «Non fanno dipendere la loro vita dal riconoscimento. E se ne fondano sempre nuove. Quando ci sarà il riconoscimento vaticano della nuova struttura, allora vedranno come fare, come è successo per le congregazioni religiose e gli istituti secolari».

Infatti per molto tempo gli istituti nuovi (Salesiani, Salesiane, Canossiane, Suore di Maria Bambina…) non erano riconosciuti come religiosi e come suore, perché il criterio vaticano era legato ai voti solenni e alla “regola” di vita. Però sono andati avanti lo stesso, anche se il loro riconoscimento come religiosi e suore è avvenuto molto tardi (1860, 1900, 1901 e 1917 con il Codice di diritto canonico). «Cioè l’importante era la vita, la consacrazione e l’apostolato, non il riconoscimento ufficiale. Non si deve dimenticare che la Congregazione dei Religiosi ha accettato i voti temporanei per molto tempo ed è intervenuta per sopprimerli (si faceva la professione anche con la formula “finchè resterò nell'istituto”) dopo il 1920», conclude Rocca.

La storia è piena di esempi. Le Figlie della Carità, volute da san Vincenzo de Paoli, con Luisa De Marillac, dinanzi alla scelta imposta da Pio v , che nel 1566 con la bolla Circa pastoralis officii decretò che le vere religiose erano solo le monache di clausura, scelsero di dedicarsi alla cura dei poveri emettendo ogni anno dei voti privati.

A Roma già prima c’erano le oblate di Tor de’ Specchi, con santa Francesca romana, dedite alla contemplazione e alla carità. «C’era spazio anche per loro», commenta suor Grazia Loparco, storica, docente alla Facoltà Auxilium, nel Comitato di direzione di Donne Chiesa Mondo . «Questa varietà è tipica della vita religiosa femminile: quando sentono che ci sono forme che rispondono a una chiamata, le donne sanno sostenere le loro ragioni di fronte ai canoni della Chiesa. Sanno rinunciare a un riconoscimento formale, perché in primis c’è un riconoscimento interiore. Questo diventa molto evidente nella modernità, con le Congregazioni religiose femminili. Penso a una Caterina Volpicelli, a Clelia Merloni, a Francesca Cabrini, donne che sentono l’urgenza di dedicarsi alla missione, educativa o assistenziale di carità, quale espressione della propria fede». La memoria va più indietro, alle martiri cristiane, che rafforzarono la testimonianza femminile nella comunità: «I vescovi, nei primi secoli, dovettero ammettere che le donne, ritenute fragili, non alla pari degli uomini, avevano invece virtù “virili”, nel senso che lo Spirito Santo dava anche a loro la fortezza di fronte alla prova. Verginità e martirio erano un binomio inequivocabile», dice suor Grazia.

E oggi? Dal Concilio sono scomparsi oltre 400 istituti e in questi anni il Dicastero per i religiosi è alle prese con circa 500 istituti, per lo più femminili, che stanno andando a finire. Con i relativi problemi che vanno dal collocamento delle suore anziane al riutilizzo degli immobili. Insomma se i carismi in generale restano, il servizio specifico di alcune realtà, un tempo anche prestigiose, sembra esaurirsi con gli anni.

Comunque, dice suor Loparco, «un fatto ricorrente nella Chiesa è che quando compaiono nuove forme che sembrano più rispondenti alle necessità del presente, non eliminano del tutto quelle precedenti. Le Congregazioni religiose dell’Ottocento, per esempio, non hanno sostituito i monasteri, che sono stati la prima forma di vita comune delle donne consacrate. Sono diminuiti, ma esistono ancora. Perché in quella forma di vita trovano senso persone che lì si sentono portate a vivere la sequela del Signore. Così nel Novecento arrivano gli Istituti secolari, che fanno a meno dell’abito religioso, della vita comunitaria, dell’attività portata avanti in comune e puntano sulla testimonianza personale nei luoghi di vita e lavoro, ma non eliminano le forme precedenti», dice suor Grazia. Oggi soprattutto le Congregazioni attive sono necessarie in quei contesti dove lo stato non riesce a prendersi cura delle necessità delle persone, «per lo più delle fasce popolari e soprattutto delle donne. È il motivo per cui sono nate nell’Ottocento, ed è la ragione della loro attualità in tante periferie del mondo». Di certo sta cambiando una forma o un tipo di vita religiosa, ma non è ancora chiaro dove si andrà. C'è un mutamento, come avvenuto tante volte in passato. La forma o la struttura cambia, ma la vita ascetico-religiosa continua. E le nuove comunità «rispondono alle forme di povertà dei contesti sviluppati, spiritualmente “anemici”, e quindi puntano sulla vita comune, sull’accompagnamento spirituale, sull’ascolto e il dialogo. E anche questo parla di Vangelo, di vocazioni personali date per l’edificazione della Chiesa» dice Loparco. Esprimono inoltre un elemento profetico: «Sono uomini e donne che nel nome del Vangelo vivono una comunione e una missione, superando conflitti tanto presenti nelle società. Oggi la vita religiosa è segno nel dire che è possibile lavorare e vivere insieme, fondati sulla fede, convergendo verso un’unica missione».

di Vittoria Prisciandaro
Giornalista periodici San Paolo, «Credere» e «Jesus»


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