· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

IlRacconto
Nella mente di una madre conciliare: lettera a una giovane d’oggi

Noi che eravamo
l’altra metà della Chiesa

 Noi che eravamo l’altra metà della Chiesa  DCM-010
04 novembre 2023

Cara giovane amica,

sono contenta e colpita dalla tua richiesta. Mi chiedi della mia esperienza al Concilio Vaticano ii . Proverò a raccontarti cosa fu per noi, quell’apertura. Laica o religiosa, ciascuna fra quelle che si ritrovarono sulla Tribuna di Sant’Andrea in San Pietro viveva la sua esperienza nella Chiesa, esperienza fatta nei luoghi più diversi, dall’Egitto, al Libano, dall’Europa all’America latina. Conoscevamo la Chiesa, ne conoscevamo, certo, una parte, ognuna in modo diverso, dalla strada ai conventi, alle istituzioni. Alcune avevano ruoli importanti, tessevano reti mondiali fra suore o fra laiche e laici, tutte conoscevamo i conflitti e provavamo a farci qualche idea dei bisogni. Alla fine, era una parte, ma era una parte sostanziosa. E sì, eravamo in attesa.

Già quando Giovanni xxiii ha annunciato il Concilio, abbiamo sentito un’energia che si diffondeva nei corpi e nelle menti: tutta la speranza di rinnovamento, di interlocuzione fra la Chiesa e quello che avveniva nel mondo, veniva dunque raccolta. Ci siamo messe in ascolto, usando un’immagine potrei dire: ci siamo sollevate in punta di piedi per vedere meglio. Tu sai che cos’erano quegli anni, quale fermento. Sembrava si preparasse un tempo nuovo, più adeguato alla vita: l’attenzione ai poveri, la nonviolenza, le voci delle donne sempre più autorevoli; anche la Chiesa era investita da quel fermento.

Quando nell’aprile del 1963 Giovanni xxiii promulgò l’enciclica Pacem in terris, ci sembrò davvero che cominciasse come nelle nostre colline la primavera. Ogni parola di quell’enciclica rispondeva con generosità ai nostri auspici, dalla prima parola del titolo: Pace. Ma quello che forse non ci aspettavamo era di vedere riconosciuto fra i segni dei tempi, insieme al ruolo delle classi lavoratrici e all’autodeterminazione dei popoli, l’ingresso delle donne nella vita pubblica. «Nella donna, infatti» leggevamo, «diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità. Sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come strumento; esige di essere considerata come persona, tanto nell’ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica». Era già tutto lì, c’era solo da dipanare il filo, da andare alle conseguenze che erano necessarie e evidenti.

Tu mi dici: però non solo durante la i Sessione, ma anche nella ii , dove si discutevano gli Schemi Il popolo di Dio e i laici e La vocazione alla santità della Chiesa, questioni che non potevano neanche essere concepite senza di noi, neanche allora c’erano donne. Mi ricordi che persino la comunione di una giornalista creò un caso, e le fu impedito di farla insieme agli altri giornalisti maschi. Non ci impressionava, ci domandi, questa esclusione? Certo che capisco il tuo sgomento, è sano e giusto.

Fu proprio durante la ii Sessione che, posando lo sguardo su tutti quei prelati, il cardinale belga Léon-Joseph Suenens si alzò e disse: «Ma dov’è qui l’altra metà del genere umano?».

L’altra metà del genere umano, a partire dalla iii Sezione del Concilio, che si aprì nel settembre del 1964, in misura minima e all’apparenza silenziosa, mise piede al Concilio. Simboliche presenze femminili, ebbe a dire Paolo vi . Giovanni xxiii era morto il 3 giugno del 1963. Le uditrici arrivarono quasi alla spicciolata, e alla fine del 1965 eravamo 23 fra religiose e laiche.

L’arrivo della lettera d’invito, te lo puoi immaginare, fu emozionante, era emozionante anche la routine quotidiana, avevamo una tessera firmata dalla Segreteria di Stato del Vaticano e andavamo alla scaletta della Tribuna di Sant’Andrea. Ci affacciavamo su San Pietro piena, e ci colpivano i prelati, i marmi che conoscevamo bene tutt’a un tratto pieni di vita, ci affacciavamo sulla storia della Chiesa in un momento così colmo di aspettative. Eravamo insieme laiche e religiose, le religiose erano dieci, ed eravamo in Tribuna maschi e femmine, uditori e uditrici. Prima che fossero discussi gli schemi, un perito veniva a spiegarli, ed era tutto un pullulare di lingue diverse, di interpreti.

Vero, come ricordi, che noi non abbiamo potuto far risuonare direttamente la nostra voce, ci sono stati degli interventi di alcuni portavoce degli uditori, ma erano sempre uomini, e quelle volte che è stata proposta una portavoce, che era la spagnola Pilar Bellosillo dell’Unione Mondiale dello Organizzazioni Femminili Cattoliche, il suo intervento è stato sempre rifiutato. Però devi aver chiaro che ci sono stati molti modi di intervenire, di far ponderare le cose che avevamo da dire. Ci sono i documenti che stilavamo e consegnavamo, ci sono gli incontri informali, i corridoi, le cene nelle case. Fuori da San Pietro ci riunivamo a Santa Marta oppure all’Istituto Santissima Maria Bambina a via del Sant’Uffizio e imparavamo a conoscerci fra laiche e religiose, avevamo messo su una Commissione, mettevamo vicine le nostre prospettive.

Ti ha colpito la storia del bar, i prelati che in imbarazzo e così poco abituati alle presenze femminili ci hanno fatto preparare una saletta da rinfresco tutta per noi tenendoci lontane dai locali dove si incontravano e dialogavano informalmente fra loro. Le più spiritose fra noi lo chiamavano Bar None (bar della suora, bar di nessuno), una saletta ricoperta di velluto giallino dove venivano serviti tè e pasticcini. Non ti ha fatto ridere il fatto che i coniugi messicani Luz Maria Longoria e José Alvarez Icaza, invitati come coppia, fossero separati dal bizzarro e apparentemente improvvisato protocollo. Hai parlato di segregazione, e come darti torto? Anch’io sono stata sconcertata, erano comportamenti incredibili, ma forse sono stata sconcertata per un motivo un po’ diverso: pensare che noi ventitré, così poche, e anche così attente, rispettose, emozionate, giungessimo come una tempesta che scompaginava le abitudini, che ci trovassero per la nostra sola presenza così difficili da ricondurre all’ordine protocollare mi colpiva.

Giunte noi quell’ordine era disfatto, la nostra presenza richiedeva criteri nuovi, un rinnovamento di tutto. Ridevamo molto in quei mesi di quelle assurdità da paese delle meraviglie di Alice. Ridevamo con bonomia, quasi con tenerezza persino delle resistenze che incontravamo. Suor Costantina Baldinucci, presidente della Federazione Italiana Religiose Ospedaliere scrisse nelle sue memorie del Concilio: «Vi erano tre categorie: una minoranza di “bravi ragazzi” che ha veramente apprezzato la nostra presenza ed ha offerto in modo rispettoso il suo apporto. La maggioranza si è comportata con indifferenza. Alcuni apparivano spaventati ed hanno evitato anche di incontrarci. Taluni, poi, hanno chiaramente disapprovato il nostro essere là e ci hanno evitato del tutto». Ed era così. Ma era buffo vedere come ci evitavano, avevano loro un problema, non noi.

Ti fa arrabbiare anche il nostro umorismo, dici che è tipico, le donne che fanno le madri degli uomini anche più vecchi di loro, anche potenti e si sentono meglio, li guardano con tenerezza, ridono di loro, e intanto tutto rimane com’è. Ci penserò, hai sicuramente le tue ragioni, ma la risata trillante di Luz Icaza mi mette ancora allegria.

Poi c’è dell’altro, cara: noi eravamo Chiesa, portavamo là dentro forse più di tanti prelati la Chiesa che agiva nel mondo, c’era Marie-Louise Monnet, del Mouvement International d’apostolat des Milieux Sociaux Indépendants, c’era Mary Luke Tobin, presidente della Conferenza delle Superiore Maggiori degli Istituti femminili degli Stati Uniti, c’era Marie de la Croix Khouzam, presidente dell’Unione delle Religiose Insegnanti d’Egitto, c’era Sabin de Valon, superiora delle Dame del Sacro Cuore, c’era Rosemary Goldie, segretaria esecutiva del Comitato permanente dei Congressi Internazionali per l’apostolato dei Laici, per non nominartene che alcune. Noi il segno dei tempi che eravamo lo prendevamo sul serio, perciò ci sembrava che il problema non era tanto nostro: rendevamo visibile la segregazione mentre ne annunciavamo la fine.

Il nostro apporto arrivò attraverso documenti fatti avere alle commissioni, è riconoscibile in molte Sessioni, ed è sancito dall’intervento di monsignor Angelo Dell’Acqua in udienza il 21 gennaio 1965 con suor Baldinucci: la posizione di uditrice impegna “a dare un apporto di studio e di esperienza alle commissioni incaricate di rivedere ed emendare gli schemi della iv Sessione”. E il contributo poi l’abbiamo dato ed è visibile e neanche tanto in filigrana nella Costituzione Pastorale Gaudium e spes e non solo quando vi si parla di dignità della donna.

Ma tu non ti accontenti e dici: ma ancora prima del Concilio, e non solo fra le teologhe tedesche, si parlava di diaconato delle donne, di sacerdozio, su tante cose il Concilio è grande, ma sulle donne è un elefante che ha partorito un topolino. Amica cara, sta attenta a quella bestiola. Il Concilio Vaticano ii ha reso possibile l’apertura delle facoltà di teologia alle donne, lo studio e l’insegnamento della teologia e io so che ci stai pensando, forse anche tu un giorno sarai teologa, e oggi, lo sai, le teologhe stanno rivitalizzando gli studi biblici e cambiando prospettiva sulla liturgia e su ogni cosa che riguardi la vita cristiana. E il fatto di non essere ancora arrivate al sacerdozio, sembra sventura, ma forse è una grazia. Ti ricordi il Coro finale dell’Adelchi, il coro di Ermengarda? Te collocò la provida/Sventura in fra gli oppressi:? La storia delle donne nella Chiesa ha fatto sì, che badesse o sante, le donne si ritrovassero dall’altra parte rispetto al clero. Con i laici. Visto che non sono state e non sono sacerdoti, lo spazio nuovo che creano ogni giorno nella Chiesa è uno spazio per l’apostolato di laici e laiche, uno spazio che cresce. Regalano intanto un respiro nuovo alla Chiesa, più osmotico, più libero, più ampio.

di Carola Susani