· Città del Vaticano ·

Camminare insieme
La relazione del cardinale Mario Grech al convegno organizzato dalla Pontificia Università Gregoriana

La teologia
alla prova della sinodalità

 La teologia  alla prova della sinodalità  QUO-105
06 maggio 2023

Pubblichiamo la relazione del cardinale Mario Grech, segretario generale del Sinodo, che, giovedì 27 aprile 2023, ha aperto alla Pontificia Università Gregoriana il congresso internazionale dal titolo “La teologia alla prova della sinodalità”. Obiettivo del convegno, durato tre giorni, è stato aprire un confronto tra teologi di diversa provenienza allo scopo di «esplorare le condizioni per una teologia che chiarisca a se stessa la propria vocazione alla sinodalità, al fine di identificare i percorsi per una teologia rinnovata, fino a porre le basi per l’attuazione di un metodo sinodale in teologia». Il convegno è stato organizzato dalla Facoltà di Teologia dell’Ateneo in collaborazione con la segreteria generale del Sinodo.

Grazie per aver organizzato questo Convegno internazionale sulla «teologia alla prova della sinodalità». La speranza è che la buona riuscita dell’iniziativa sia per tanti teologi e tante istituzioni teologiche uno stimolo ad approfondire un argomento che si offre come il banco di prova per la teologia. Molti ripetono, quasi fosse uno slogan, le parole di Papa Francesco sul «cammino della sinodalità» come «il cammino che Dio si attende dalla Chiesa del terzo millennio». L’affermazione interpella molto da vicino la teologia, chiamata a interpretare alla luce della Rivelazione il vissuto della Chiesa.

Il processo sinodale in atto pone molte domande alla teologia. Già nel titolo si incontrano questioni teologiche enormi: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione». Ogni termine domanda una riflessione attenta a molti livelli; la loro collocazione nell’orizzonte della sinodalità moltiplica le implicazioni, sollecitando la ricerca di soluzioni che dipendono da una teologia sapienziale, che svolge la sua funzione nella logica evangelica dello scriba, il quale, «divenuto discepolo del Regno, è simile a un padrone di casa che trae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13, 52).

Il Convegno — così recita la presentazione — «intende esplorare le condizioni per una teologia che chiarisca a se stessa la propria vocazione alla sinodalità, al fine di identificare i percorsi per una teologia rinnovata, fino a porre le basi per l’attuazione di un metodo sinodale in teologia». Il programma lascia intuire un progetto giustamente ambizioso, che, a partire dalle visioni ed esperienze (prima sezione), prova a fondare la vocazione della teologia alla sinodalità (seconda sezione) e a delineare un metodo sinodale in teologia (terza sezione).

Lascio al Convegno approfondire la seconda e la terza sezione, aspettando i frutti del confronto. Gli obiettivi che il Convegno si propone promettono un raccolto abbondante: non è poca cosa, infatti, immaginare una teologia sinodale, disegnando un profilo di teologia dalla e per la sinodalità, approfondendo a livello metodologico sinodalità e trans-disciplinarietà, e a livello di cammino ecclesiale sinodalità e dialogo ecumenico.

Per parte mia, vorrei offrire qui una riflessione sulla prima sezione, che rilegge la sinodalità «a partire dalle visioni e dalle esperienze», mettendo a fuoco l’esperienza sinodale fin qui vissuta nella prima fase del processo sinodale e sottolineando gli aspetti che maggiormente interpellano la teologia. La riflessione che propongo mette a fuoco anzitutto il processo sinodale, evidenziando i momenti salienti della prima fase, per sottolineare gli elementi di maggior rilievo teologico che lungo il cammino sono emersi, sottoponendoli al vaglio critico della teologia.

La questione di fondo: dall’evento al processo


Il primo elemento che sottopongo alla vostra attenzione è il “perfezionamento” del Sinodo. Parlo di perfezionamento, perché Paolo vi , al momento di istituire il Sinodo dei Vescovi come «un consiglio permanente di Vescovi per la Chiesa universale, soggetto direttamente ed immediatamente alla Nostra potestà e che con nome proprio chiamiamo Sinodo dei Vescovi», aggiungeva che «come ogni istituzione umana, col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato». Il Sinodo, come spiega il motu proprio Apostolica sollicitudo (15 settembre 1965) consisteva in «a) una istituzione ecclesiastica centrale; b) rappresentante tutto l’Episcopato cattolico; c) perpetua per sua natura; d) quanto alla sua struttura, svolgente i suoi compiti in modo temporaneo ed occasionale».

Sulla base di tali presupposti, si comprende perché il Sinodo dei Vescovi, con il passare del tempo, sia stato accompagnato in modo sempre più insistente dalla domanda sull’esercizio della collegialità episcopale. In questa linea sembrava intenderlo il concilio, al momento di recepirlo nel decreto Christus Dominus (n. 5), ma tale comprensione si scontrava con la composizione dell’aula, che non vedeva presente il collegio dei vescovi, «soggetto di piena e universale potestà su tutta la Chiesa» (Lumen Gentium 23), ma solo un’assemblea di vescovi chiamati a dare un aiuto al Papa «per il bene della Chiesa universale». L’organismo aveva dunque natura consultiva, a totale servizio del primato, realizzando la partecipazione dei vescovi a una prerogativa fino a quel momento riservata al papa, vale a dire la sollecitudine per tutte le Chiese.

Con questo impianto, confermato dal Codice di Diritto Canonico, si sono celebrate 15 Assemblee generali ordinarie; 3 Assemblee generali straordinarie, 11 Assemblee speciali. Tuttavia, già durante l’Assemblea generale ordinaria sulla famiglia (la seconda), il Papa introduce una riflessione che apre a un “perfezionamento” del Sinodo dei Vescovi, in un discorso pronunciato il 17 ottobre 2015, per la commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi. In quella occasione il Papa introduce per la prima volta l’idea di una Chiesa sinodale, descrivendola in questo modo: «Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Gv 14, 17), per conoscere ciò che Egli “dice alle Chiese” (Ap 2, 7)».

E continua: «Il Sinodo dei Vescovi è il punto di convergenza di questo dinamismo di ascolto condotto a tutti i livelli della vita della Chiesa», indicando la parte di ciascun soggetto. Così «il cammino sinodale inizia ascoltando il Popolo, che “pure partecipa alla funzione profetica di Cristo”, secondo un principio caro alla Chiesa del primo millennio: “Quod omnes tangit ab omnibus tractari debet”». «Il cammino del Sinodo prosegue ascoltando i Pastori. Attraverso i Padri sinodali, i Vescovi agiscono come autentici custodi, interpreti e testimoni della fede di tutta la Chiesa, che devono saper attentamente distinguere dai flussi spesso mutevoli dell’opinione pubblica». «Infine, il cammino sinodale culmina nell’ascolto del Vescovo di Roma, chiamato a pronunciarsi come “Pastore e Dottore di tutti i cristiani”: non a partire dalle sue personali convinzioni, ma come supremo testimone della fides totius Ecclesiae, “garante dell’ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa”».

Non bastasse, il Papa riprende l’idea del processo dal punto di vista non dei soggetti, ma della Chiesa stessa come «il corpo delle Chiese», «nelle quali e a partire dalle quali esiste la una e unica Chiesa Cattolica» (Lumen Gentium, 23). Così «in una Chiesa sinodale, il Sinodo dei Vescovi è solo la più evidente manifestazione di un dinamismo di comunione che ispira tutte le decisioni ecclesiali», attraverso un processo articolato per livelli: «Il primo livello di esercizio della sinodalità si realizza nelle Chiese particolari». «Il secondo livello è quello delle Province e delle Regioni Ecclesiastiche, dei Concili Particolari e in modo speciale delle Conferenze Episcopali». «L’ultimo livello è quello della Chiesa universale. Qui il Sinodo dei Vescovi, rappresentando l’episcopato cattolico, diventa espressione della collegialità episcopale all’interno di una Chiesa tutta sinodale».

Nasce qui l’idea di processo sinodale, sancito dalla costituzione apostolica Episcopalis communio (15 settembre 2018), che supera l’idea del Sinodo dei Vescovi come evento circoscritto a un’Assemblea di vescovi per trasformarla in un processo articolato in fasi: l’art. 4 di Episcopalis communio dispone che «ogni Assemblea del Sinodo si sviluppa secondo fasi successive: la fase preparatoria, la fase celebrativa, la fase attuativa». In questa logica si sta svolgendo l’attuale Sinodo, iniziato il 10 ottobre 2021 con la consultazione del Popolo di Dio nelle Chiese particolari e le successive tappe di discernimento nelle Conferenze Episcopali e nelle Assemblee continentali/regionali e ora avviata verso la seconda fase, con la celebrazione a Roma dell’Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi in due sessioni, una nel prossimo ottobre e una nell’ottobre del 2024.

Tutto questo interpella la teologia. Potrei riassumere la questione che nasce dal “perfezionamento” del Sinodo in una domanda: è vero che la trasformazione da evento in processo garantisce che il Sinodo sia «espressione della collegialità episcopale all’interno di una Chiesa tutta sinodale»? Quanto sia decisiva la questione è inutile dirlo: si concentra qui tutto un dibattito che ha attraversato la vita della Chiesa dal concilio ad oggi e ha agitato la teologia, con discussioni infuocate. Non tocca a me riassumere il percorso difficile e contrastato dell’ecclesiologia post-conciliare, con tutte le sue tensioni. Mi piace pensare che un modello sinodale di Chiesa costituisca il punto di soluzione di quei dibattiti, la composizione delle tensioni (non di rado create ad arte per dividere il corpo ecclesiale), la recezione matura dell’ecclesiologia conciliare. Ma si tratta di dimostrare la verità dell’affermazione che la Chiesa sinodale è il frutto maturo del concilio Vaticano ii . Alcuni lo ripetono come un ritornello, una frase fatta, senza portare argomenti e senza provare la continuità. Una teologia che voglia e sappia pensarsi «nella e dalla sinodalità» deve provare questa affermazione. Una sfida non da poco, che domanda impegno, conoscenza del concilio e dei processi che lo hanno attraversato, conoscenza della storia della Chiesa e della storia del dogma, capacità di lettura dei processi che intrecciano il cammino della Chiesa: in una parola, conoscenza del dinamismo della Tradizione.

Le questioni teologiche emergenti


Dentro questo orizzonte della Chiesa sinodale, emerge un’infinità di questioni, che domandano di essere sviluppate in una logica nuova. Mi limito a quelle che emergono in modo più evidente dal processo sinodale.

La prima: se «una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto», e l’ascolto è ascolto dello Spirito Santo che guida la Chiesa, bisogna tornare anzitutto alla pneumatologia come “luogo” proprio e sorgente della sinodalità. Tutti sappiamo come la Chiesa in Occidente abbia patito per lungo tempo un deficit pneumatologico. La paura di una Ecclesia spiritualis come minaccia alla gerarchia produsse una ecclesiologia centrata soprattutto sugli aspetti visibili e istituzionali della Chiesa. Per secoli abbiamo ripetuto l’affermazione di Roberto Bellarmino, padre dell’Università delle Nazioni, che la Chiesa è «tam visibilis quam coetus Populi Romani, respublica Venetorum et regnum Galliae». Il Vaticano ii ha recuperato in termini embrionali la presenza e l’azione dello Spirito nella Chiesa. La «non debole analogia» della Chiesa con il mistero del Verbo Incarnato, proposta in Lumen Gentium 8, porta a concludere che non esiste Chiesa senza Spirito. Ciò che fa lo Spirito nella Chiesa lo dice in sintesi Lumen Gentium 4: «Lo Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr. 1 Cor 3, 16; 6, 19) e in essi prega e rende testimonianza della loro condizione di figli di Dio per adozione (cfr. Gal 4, 6; Rm 8, 15-16 e 26). Egli introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cfr. Gv 16, 13), la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef 4, 11-12; 1 Cor 12, 4; Gal 5, 22). Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo. Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù: «Vieni» (cfr. Ap 22, 17)

Il processo sinodale è stato condotto con il metodo della «conversazione spirituale», che non è una variante di un qualche metodo di lettura spirituale, ma è un ascolto ecclesiale dello Spirito, una «conversatio in Spiritu Sancto»! Attraverso questo «dinamismo di ascolto» da parte di tutti nella Chiesa lo Spirito la guida nel suo cammino — «insieme»! — verso il Regno di Dio. Questo significa ripensare in chiave nuova i tre termini su cui il Sinodo è chiamato a interrogarsi — comunione, partecipazione, missione —, termini che si illuminano alla luce della presenza e dell’azione dello Spirito Santo nella Chiesa.

La seconda: se il principio dell’ascolto coinvolge Popolo di Dio, Collegio episcopale, Vescovo di Roma, che rapporto intercorre tra questi tre soggetti? Come pensare la sinodalità, la collegialità e il primato dentro il processo sinodale? Il concilio Vaticano ii ha ricollocato il primato dentro la costituzione gerarchica della Chiesa, in equilibrio con il ministero dei vescovi, e ha ripensato la funzione gerarchica al servizio del Popolo di Dio, ponendo i presupposti per un esercizio pieno della sinodalità, della collegialità, del primato. Sviluppare un processo sinodale in cui tutti i soggetti siano garantiti nell’esercizio della propria funzione, senza pregiudicare la funzione altrui, significa sviluppare una via cattolica alla sinodalità, che rispetta i dati che emergono dalla Tradizione sul ministero petrino, sul ministero episcopale e sulla capacità del Popolo di Dio di essere soggetto attivo nella Chiesa. Rileggere il tutto da una prospettiva sinodale aiuterà — ne sono convinto — a superare tensioni e contrapposizioni secolari. Una teologia del processo sinodale in grado di pensare in unità dinamica sinodalità, collegialità e primato sarà un grande aiuto alla causa ecumenica.

La terza: se «il processo sinodale inizia ascoltando il Popolo di Dio», il processo sinodale riconsegna alla Chiesa l’ecclesiologia del Popolo di Dio, proposta nel capitolo ii di Lumen Gentium, che costituisce — lo dicono gli ecclesiologi — la «rivoluzione copernicana» del concilio Vaticano ii : «Cristo istituì questo nuovo patto cioè la nuova alleanza nel suo sangue (cfr. 1 Cor 11, 25), chiamando la folla dai Giudei e dalle nazioni, perché si fondesse in unità non secondo la carne, ma nello Spirito, e costituisse il nuovo popolo di Dio. Infatti i credenti in Cristo, essendo stati rigenerati non di seme corruttibile, ma di uno incorruttibile, che è la parola del Dio vivo (cfr. 1 Pt 1, 23), non dalla carne ma dall’acqua e dallo Spirito Santo (cfr. Gv 3, 5-6), costituiscono “una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo tratto in salvo... Quello che un tempo non era neppure popolo, ora invece è popolo di Dio” (1 Pt 2, 9-10). Questo popolo messianico ha per capo Cristo… Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio… Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr. Gv 13, 34). E finalmente, ha per fine il regno di Dio» (Lumen Gentium, 9). 

A questa rivoluzione si ricollega il recupero del sacerdozio comune dei fedeli, la partecipazione del Popolo di Dio alla funzione profetica, sacerdotale e regale di Cristo, il tema del sensus fidei e dei carismi. La prima stagione post-conciliare è stata segnata da polemiche arroventate per un uso ideologico della categoria di Popolo di Dio, determinando una sorta di arroccamento della Chiesa attorno all’ecclesiologia di comunione, declinata in termini di communio hierarchica. Un’ecclesiologia in chiave sinodale può superare interpretazioni di parte, rileggendo in unità il cammino della Chiesa nel post-concilio. Bisogna poter dire, in modo teologicamente fondato, che la forma della communio nella Chiesa-Popolo di Dio è propriamente la sinodalità. Non si tratta di usare strumentalmente la sinodalità per riaprire una stagione di conflitti tra Popolo di Dio e gerarchia, ma di tradurre in atto l’ecclesiologia del concilio Vaticano ii .

La quarta: se «il primo livello di esercizio della sinodalità si realizza nelle Chiese particolari», il processo sinodale chiede di pensare la Chiesa a partire dal principio ecclesiologico enunciato dal concilio, sul quale poggia l’intero processo sinodale: la Chiesa è «il corpo delle Chiese», «nelle quali e a partire dalle quali esiste l’una e unica Chiesa Cattolica» (Lumen Gentium 23). Su questa famosa formula — in quibus et ex quibus — sono stati versati fiumi d’inchiostro e sono state accese polemiche che hanno recato danno alla Chiesa, quando si sono contrapposte artificiosamente le Chiese particolari alla Chiesa universale. Una comprensione della Chiesa in chiave sinodale può superare queste tensioni e restituire una ecclesiologia del Popolo di Dio che integri serenamente il capitolo iii di Lumen Gentium sulla costituzione gerarchica della Chiesa. Il processo sinodale nelle sue diverse fasi ha tradotto in prassi virtuosa il principio della «mutua interiorità» tra Chiese particolari e Chiesa universale, incominciando il processo dalle Chiese particolari dove “abita” il Popolo di Dio. Il fatto che sia stato il Vescovo ad aprire la consultazione del Popolo di Dio nella sua Chiesa mostra che in una Chiesa di Chiese la dimensione sinodale e quella gerarchica si compongono armonicamente. Per questa via si può ripensare il ministero dei Pastori come forma di servizio a una Chiesa sinodale. E si possono anche ripensare le strutture esistenti in forma nuova, sinodale.

La questione del metodo


Potrei continuare. Ma non tocca a me fare l’elenco delle questioni a chi è «maestro in Israele». Come Segretario Generale della Segreteria Generale del Sinodo, totalmente impegnata nel processo sinodale, mi permetto di ripetere quanto dice Episcopalis communio, art. 9: «Gli Istituti di Studi Superiori, soprattutto quelli che possiedono una speciale competenza sul tema dell’Assemblea del Sinodo o su questioni specifiche con esso attinenti, possono offrire studi, o di propria iniziativa o su richiesta […] delle Conferenze Episcopali, o su richiesta della Segreteria Generale del Sinodo».

Sul tema dell’Assemblea del Sinodo tutte le istituzioni teologiche e tutti i teologi possono contribuire grandemente. È bastato ripercorrere il processo sinodale per rendersi conto di quante e quali questioni teologiche sono suscitate dal tema della sinodalità. Sono certo che molti tra di voi, a partire dal tema dell’assemblea — «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione» — potrebbero scrivere un saggio teologico che arricchirebbe la conoscenza di questo «meraviglioso poliedro» che è la Chiesa sinodale. La speranza è che, mentre si compiono le tre fasi del processo sinodale la teologia approfondisca in termini decisivi il tema della sinodalità e della «Chiesa costitutivamente sinodale».

Potrei concludere qui. Ma il fatto che la dinamica del processo sinodale ponga questioni di enorme portata alla teologia mi sollecita a offrire un accenno alla questione del metodo sinodale in teologia. So quanta importanza rivesta il metodo. La Facoltà di teologia della Gregoriana ha prodotto dopo il concilio due grandi proposte in ambito metodologico. La prima e più conosciuta è quella del padre Lonergan, con il suo Method in Theology, che vide la prima edizione nel 1972, alla quale va associato Insight, il famoso studio of Human Understanding. Qui il padre. Lonergan sottolinea l’importanza dell’esperienza nei processi cognitivi, distinguendo il livello dei dati, il livello della ricerca, il livello della critica. Anche la seconda proposta, quella dei padri Alszeghy e Flick, che nel 1974 hanno pubblicato il fortunato libro Come si fa la teologia, insiste sulla funzione della teologia di interpretare la vita ecclesiale. Mi colpisce questa affermazione: «L’interpretazione critica ha due aspetti: essa implica dall’una parte un ritorno al passato, in cui la Rivelazione una volta per sempre è stata accettata e progressivamente compresa dalla Chiesa; dall’altra parte è una apertura verso nuove esperienze che emergono in ogni epoca della storia e appellano ad un rinnovamento e ripensamento della realtà ecclesiale» (Come si fa la teologia, 56).

Queste parole calzano perfettamente al momento attuale che sta vivendo la Chiesa, come apertura alla sinodalità, che domanda al contempo di essere fondata nella Tradizione, perché non sia una novità fine a se stessa. Emerge nelle due proposte di metodo una attenzione forte alla vita della Chiesa, all’esperienza che la comunità dei credenti vive oggi. Tanto Lonergan quanto Flick-Alszeghy sembrano dirci, con linguaggi e sensibilità diverse, che il teologo deve partire dall’esperienza, lasciarsi interrogare dalla situazione che sta vivendo la Chiesa, offrendo risposte — o quantomeno ipotesi di risposta — che mostrino come sia possibile incarnare oggi il Vangelo.

È questo aspetto che vorrei sottolineare: il processo sinodale, in tutte le tappe della prima fase, ha rivelato l’importanza dell’esperienza per la comprensione della sinodalità. Chi si è lasciato coinvolgere e interpellare, chi ha effettivamente vissuto una partecipazione piena al processo sinodale, ha anche compreso «dal di dentro» la sinodalità, come una realtà viva, un processo dinamico che restituisce vita alla Chiesa. Ristabilendo anzitutto le relazioni tra chi partecipa al processo e si pone in ascolto dello Spirito attraverso l’ascolto degli altri. Questo metodo della conversazione nello Spirito rimanda al dinamismo della Tradizione descritto da Dei Verbum: «Questa Tradizione che viene dagli Apostoli progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2, 19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio» (Dei Verbum 8).

La teologia è un atto secondo, che interpreta la vita ecclesiale. I tre fattori che partecipano del dinamismo della Tradizione, attraverso un processo di «comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse», riguardano tutti in un modo o nell’altro il vissuto ecclesiale, la sua dimensione esperienziale. Io vi invito ad ascoltare quanto è avvenuto finora e quanto avverrà nelle fasi venture del processo sinodale. Dentro questa esperienza della Chiesa-Popolo di Dio chiamata a «camminare insieme» sta germogliando uno stile e una forma di Chiesa, uno stile e una forma di vita cristiana per il nostro tempo. Fornire una adeguata interpretazione a questa esperienza credo sia il compito di una teologia che voglia pensarsi sinodale e ripensare il suo compito al servizio di una Chiesa sinodale.

Non so se sia facile sviluppare un metodo sinodale in teologia. Pensare al teologo e identificarlo con una sorta di “solitario” alla ricerca di una sintesi originale del pensiero cristiano o di qualche suo aspetto, è un tutt’uno. La funzione del teologo è in certo qual senso personale, legata com’è alla sua competenza scientifica. Ma la teologia non può e non dev’essere un prodotto di laboratorio, il risultato di un’applicazione deduttiva di principi astratti che stanno a fondamento di sistemi, non di rado senza riscontro nella realtà.

Nella letteratura sulla sinodalità, che in questi ultimi anni ha conosciuto una moltiplicazione esponenziale, non è mancata la tentazione di dedurre da principi astratti una teoria della sinodalità che non corrispondeva all’esperienza della Chiesa che sta vivendo il processo sinodale. Non voglio qui assolutizzare l’esperienza, né sminuire la funzione della teologia, ma stabilire una relazione necessaria tra l’esperienza sinodale in atto e la teologia della sinodalità. Una teologia sinodale dipende anch’essa dal principio dell’ascolto: ascoltare le esperienze di sinodalità significa porsi nella possibilità di formulare una teologia della sinodalità a partire da ciò che lo Spirito sta operando nella comunità dei credenti. Non si tratta di una teologia che si limita a descrivere i processi sinodali, ma li legge criticamente, li interpreta, per «distinguere ciò che nell’esperienza ecclesiale è genuino e autentico, e ciò che invece è frutto di malinteso, abuso e oscuramento; suo compito è discernere la “sostanza” inalienabile del messaggio cristiano nelle varie “forme” contingenti, in cui esso s’incarna attraverso il susseguirsi delle varie culture» (Come si fa la teologia, 56).

Così, una teologia sfidata dalla sinodalità e dall’esperienza sinodale saprà rispondere alla sfida aprendosi all’ascolto. Si tratterà sempre di un ascolto critico, in grado di comprendere, attraverso il vaglio della scienza teologica, la natura della sinodalità e la dinamica interna del processo sinodale. Se farà questo, la teologia aiuterà veramente la causa della sinodalità. Dunque, non mi resta che ringraziarvi per quanto questo Convegno approfondirà il tema della sinodalità, proprio a partire dalle visioni e dalle esperienze di sinodalità. Buon Convegno!

di Mario Grech