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Il diritto di crescere senza la paura della guerra Le storie di Salem, ferito a Gaza, e di Monica, della Scuola della pace della Comunità di Sant’Egidio

Il mio nome è Pace

 Il mio nome è  Pace  ODS-021
04 maggio 2024

La pace, che porta nel suo nome, forse lo salverà dal dolore, dalla rabbia, dal possibile richiamo della vendetta. Quando è nato nel nord della Striscia, i genitori, perduti nell’immensità della distruzione di Gaza, hanno scelto di chiamarlo Salem che, se è vero che viene dall’arabo “Salam”, deriva anche dall’ebraico “Shalom”. “Salam” e “Shalom”, le due facce della stessa medaglia, quella della pace.

A soli otto anni, Salem porta indelebili i segni della guerra, quelli invisibili, ma incastrati nell’animo, quelli più evidenti, sul viso e in tutto il corpo, ferite e lesioni provocate dalle schegge delle bombe. I numeri dei minori vittime del conflitto in atto da ottobre sono indicibili, tanto da far denunciare alle organizzazioni internazionali che «questa guerra è una guerra contro i bambini, una guerra alla loro infanzia e al loro futuro», citando le parole di Philippe Lazzarini, commissario generale dell’Agenzia Onu per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente, l’Unrwa.

Salem, accompagnato dalla nonna, è arrivato in Italia all’inizio di febbraio, a bordo della nave Vulcano della Marina Militare attraccata al porto di La Spezia grazie ad un programma di soccorso avviato dal governo italiano lo scorso gennaio per trasferire in centri di cura i feriti della guerra di Gaza e assistere le loro famiglie in centri di accoglienza con l’aiuto di associazioni e della società civile.

Sguardo fisso a terra, senza mai alzare la testa, Salem tiene la mano stretta in quella della nonna, dalla quale non si allontana mai, per paura di perdere anche lei, testimoniano i militari che li hanno accompagnati.

Ad accogliere loro e gli altri civili fuggiti dalla violenza c’è una bella festa, organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio: palloncini, caramelle e fiori, nel tentativo di strappare anche solo un mezzo sorriso alle piccole vittime. Per un attimo, racconta una volontaria della comunità di Trastevere, Salem alza lo sguardo, pochi istanti che segnano l’inizio di un’amicizia.

Il lungo viaggio di Salem e della nonna li porta al Rizzoli di Bologna, per ricevere le cure, e dove nei giorni successivi gli operatori della Comunità di Sant’Egidio vanno a trovarli. È la nonna a dare forma alla tragedia vissuta in patria. Racconta della fuga di Salem con i genitori dal nord di Gaza dopo l’inizio dell’offensiva israeliana, del viaggio verso Rafah, a sud, con la speranza di essere al sicuro. Come tanti altri profughi, ad accoglierli è una scuola, sembra il posto più protetto, perché non si può neanche immaginare che una scuola possa essere colpita. Ma la realtà supera l’immaginazione, ospedali e scuole vengono bombardati, anche quella dove si trova Salem, che uscirà dalle macerie solo, unico superstite della sua famiglia. Ed è la nonna che va a prenderlo, per non lasciarlo più.

A Salem i medici hanno rimosso le schegge dagli occhi, nel giro di un mese con altre operazioni si rimuovono tutte quelle che sono infilate nel suo corpicino. Accanto alle cure del fisico ci sono quelle dell’anima, e a quelle pensa la comunità.

La speranza è che il sorriso possa tornare a Salem e a tutti gli altri piccoli, che l’hanno perso perché la guerra e le armi, sono le parole di Papa Francesco, «tolgono il sorriso e l’avvenire ai bambini, e questo è tragico».

Il dolore ha spento Salem, che ora però sta tornando a sorridere e a giocare, e come lui anche Shamina, Tarek e Omar, forse hanno di nuovo la sensazione di essere al sicuro, protetti e soprattutto amati.

Shamina ha solo 4 anni, la guerra le ha portato via le gambe, con le protesi potrà tornare a camminare. Tarek, che di anni ne ha 10, aveva un sogno, come tutti i suoi coetanei, diventare calciatore e anche se ha perso un piede non ha perso la speranza, perché ha già imparato a correre sulla sedia a rotelle e presto anche lui come Shamina imparerà a muoversi con la protesi.

Anche Omar ha 4 anni, nessuna ferita sul corpo, innumerevoli quelle invisibili nel suo cuore che, seppur reso fragile e impaurito dalla guerra, ha sviluppato una incredibile preoccupazione per chi è più debole di lui, come la sua sorellina, per la quale mette sempre da parte la merenda, o gli altri bambini, ai quali regala i suoi giochi.

La Comunità di Sant’Egidio, assieme ad altre associazioni che promuovono i corridoi umanitari, la Caritas Italiana, la Federazione delle Chiese evangeliche e l’Arci, ha accolto in Italia alcuni bambini e le loro famiglie fuggiti da Gaza. Alcuni di loro sono giunti in ospedale in condizioni gravissime, altri sono stati ospitati in strutture di accoglienza della Comunità e per loro è stato avviato un percorso di inserimento all’asilo o nelle scuole, nel tentativo di ricostruire una normalità.

di Francesca Sabatinelli