· Città del Vaticano ·

I cristiani, gli artisti
di cui abbiamo bisogno

 I cristiani, gli artisti di cui abbiamo bisogno  QUO-097
29 aprile 2024

Incontrando gli artisti nella Chiesa della Maddalena, Cappella del Carcere femminile della Giudecca a Venezia, Papa Francesco ha esordito con una confessione, ha proseguito con un appello e ha concluso con un interrogativo. «Vi confesso che accanto a voi non mi sento un estraneo: mi sento a casa. E penso che in realtà questo valga per ogni essere umano, perché, a tutti gli effetti, l’arte riveste lo statuto di “città rifugio” una città che disobbedisce al regime di violenza e discriminazione per creare forme di appartenenza umana capaci di riconoscere, includere, proteggere, abbracciare tutti. Tutti, a cominciare dagli ultimi». La scelta di realizzare il Padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia all’interno del carcere femminile della Giudecca risponde a questa visione dell’arte che “riconosce, include, protegge, abbraccia tutti, a comincia dagli ultimi”. L’arte è un rifugio, ci ricorda il Papa, un luogo dove tutti possano sentirsi a casa, dove ogni essere umano, entrandoci, possa riconoscersi e riconoscere il mondo così com’era destinato a essere nel disegno originario di Dio, quel mondo creato e ammirato dal suo stesso Creatore: E Dio vide che era cosa buona/bella (Gn 1, 18).

L’arte quindi può diventare un momento di tregua, di sosta, di uscita da una vita frenetica, tesa solo al produrre, al fare, al sopraffare. Come per lo sport, si pensi alla cosiddetta “tregua olimpica”, l’arte può generare le condizioni per la nascita della pace. Il Papa ha citato in tal senso l’istituzione biblica delle città rifugio, destinate «a prevenire lo spargimento di sangue innocente e a moderare il cieco desiderio di vendetta, per garantire la tutela dei diritti umani e cercare forme di riconciliazione. Sarebbe importante se le varie pratiche artistiche potessero costituirsi ovunque come una sorta di rete di città rifugio, collaborando per liberare il mondo da antinomie insensate e ormai svuotate, ma che cercano di prendere il sopravvento nel razzismo, nella xenofobia, nella disuguaglianza, nello squilibrio ecologico e dell’aporofobia, questo terribile neologismo che significa “fobia dei poveri”.»

Da qui l’appello, rivolto direttamente al grande talento proprio degli artisti, l’immaginazione: «Vi imploro, amici artisti, immaginate città che ancora non esistono sulla carta geografica: città in cui nessun essere umano è considerato un estraneo. È per questo che quando diciamo “stranieri ovunque”, stiamo proponendo “fratelli ovunque”». Questa “città che non c’è”, parafrasando il famoso romanzo di J.Barrie, è una necessità, è quella città che rende umane e ricche di senso tutte le altre esistenti, perché, ha affermato con forza il Papa, «il mondo ha bisogno degli artisti». I cristiani stessi sono chiamati ad essere gli artisti di cui il mondo ha bisogno. E già lo sono, da circa duemila anni, perché nel cristiano vive e si incarna quotidianamente il paradosso di vivere nel mondo come “stranieri” e “fratelli” nello stesso tempo. L’antica Lettera a Diogneto lo aveva già detto in modo chiaro e preciso: «[i cristiani] risiedono poi in città sia greche che barbare, così come capita, e pur seguendo nel modo di vestirsi, nel modo di mangiare e nel resto della vita i costumi del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, come tutti hanno ammesso, incredibile. Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera». Sentirsi a casa e al tempo stesso stranieri lungo il pellegrinaggio terreno, questo la paradossale condizione dei cristiani nel mondo che propongono ad una umanità spesso distratta, annoiata e intorpidita, «una forma di vita meravigliosa».

Perché il mondo può assumere il volto duro e disumano del carcere, una prigione da cui si può evadere e l’arte può rappresentare la via per questo affrancamento, per un possibile riscatto. Questo processo di liberazione può nascere solo a partire dal cuore dell’uomo e dal suo modo di guardare il mondo e la vita. Per questo il Papa nel concludere il suo discorso si è concentrato sul tema dello sguardo prendendo spunto dal titolo del padiglione, “Con i miei occhi”: «Abbiamo tutti bisogno di essere guardati e di osare guardare noi stessi. In questo, Gesù è il Maestro perenne: Egli guarda tutti con l’intensità di un amore che non giudica, ma sa essere vicino e incoraggiare. E direi che l’arte ci educa a questo tipo di sguardo, non possessivo, non oggettivante, ma nemmeno indifferente, superficiale; ci educa a uno sguardo contemplativo. Gli artisti sono nel mondo, ma sono chiamati ad andare oltre. Ad esempio, oggi più che mai è urgente che sappiano distinguere chiaramente l’arte dal mercato. Certo, il mercato promuove e canonizza, ma c’è sempre il rischio che “vampirizzi” la creatività, rubi l’innocenza e, infine, istruisca freddamente sul da farsi».

E quindi, infine, l’interrogativo: cosa vediamo nella nostra vita quotidiana? Come vediamo il mondo? Cosa in fondo cerchiamo? Il Papa ricorda l’interrogativo indirizzato da Gesù alle folle, a proposito di Giovanni il Battista: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere?» (Mt 11, 7-8) e ha invitato a conservare «questa domanda nel nostro cuore». C’è un deserto oggi che si allarga in un mondo ferito dalle tante guerre, dall’avidità “fredda” di un mercato regolatore e ordinatore, ma c’è anche un pozzo d’acqua fresca, un rifugio dove gli uomini possano liberamente incontrarsi, ristorarsi e riprendere il cammino in questo luogo insieme estraneo e familiare che è il mondo, il bello e buono mondo che il Signore nella sua creatività ha affidato alla nostra responsabilità. 

di Andrea Monda